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GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

Gli schiavi ci sono ancora, perché c'è ancora il peccato

«Non più schiavi ma fratelli» è il titolo del Messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2015, reso noto ieri, 10 dicembre. Dura denuncia della «sempre più diffusa piaga dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo», che ha una causa ontologica.

Ecclesia 11_12_2014
Tratta di esseri umani

Il 10 dicembre 2014 Papa Francesco ha reso noto il Messaggio per la 48ª Giornata Mondiale della pace, che cadrà il 1° gennaio 2015, formalmente datato 8 dicembre 2014. Il messaggio, dal titolo «Non più schiavi ma fratelli», esamina le diverse manifestazioni contemporanee della schiavitù, che derivano tutte dalla «tentazione di comportarci in modo non degno della nostra umanità» e dal peccato.

In diversi modi, «la sempre diffusa piaga dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo ferisce gravemente la vita di comunione e la vocazione a tessere relazioni interpersonali improntate a rispetto, giustizia e carità. Tale abominevole fenomeno, che conduce a calpestare i diritti fondamentali dell’altro e ad annientarne la libertà e dignità, assume molteplici forme».

Il Papa ricorda che il superamento della schiavitù, che certo non era parte del progetto originario di Dio per l'uomo e che fu introdotta nella storia dalla «realtà negativa del peccato», si deve al cristianesimo. Chi è cristiano supera il peccato e il male, e quindi la schiavitù. «Non si diventa però cristiani, figli del Padre e fratelli in Cristo, per una disposizione divina autoritativa, senza l’esercizio della libertà personale, cioè senza convertirsi liberamente a Cristo».  Fin dall'inizio il Vangelo della libertà si mostrò «capace di redimere le relazioni tra gli uomini, compresa quella tra uno schiavo e il suo padrone, mettendo in luce ciò che entrambi hanno in comune: la filiazione adottiva e il vincolo di fraternità in Cristo».

Con il cristianesimo furono dunque poste le basi dottrinali per negare e superare la schiavitù. Ma la schiavitù non sparì rapidamente, né dovunque. Per molti anni in diversi Paesi «il diritto stesso ammetteva che alcune persone potevano o dovevano essere considerate proprietà di un’altra persona, la quale poteva liberamente disporre di esse; lo schiavo poteva essere venduto e comprato, ceduto e acquistato come se fosse una merce». Oggi la schiavitù è stata abolita, almeno «formalmente», dovunque, e «il diritto di ogni persona a non essere tenuta in stato di schiavitù o servitù è stato riconosciuto nel diritto internazionale come norma inderogabile».

Ma questo solo in teoria: «Malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù».

Non si tratta solo dei Paesi - per fortuna pochi - dove ci sono ancora schiavi chiamati con questo nome. Ci sono «lavoratori e lavoratrici, anche minori» trattati più come schiavi che come persone libere, «tanto nei Paesi in cui la legislazione del lavoro non è conforme alle norme e agli standard minimi internazionali, quanto, sia pure illegalmente, in quelli la cui legislazione tutela il lavoratore». Ci sono migranti trattati come schiavi dai trafficanti sui barconi, «privati  dei loro beni o abusati fisicamente e sessualmente», o ancora«detenuti in condizioni a volte disumane» nei Paesi di approdo o sfruttati come lavoratori clandestini.

Ci sono persone di ambo i sessi che non si prostituiscono per scelta ma sono «costrette a prostituirsi, tra cui ci sono molti minori», una situazione comune anche «alle schiave e agli schiavi sessuali; alle donne forzate a sposarsi, a quelle vendute in vista del matrimonio o a quelle trasmesse in successione ad un familiare alla morte del marito senza che abbiano il diritto di dare o non dare il proprio consenso». Ci sono casi orribili di «minori e adulti [che] sono fatti oggetto di traffico e di mercimonio per l’espianto di organi, per essere arruolati come soldati, per l’accattonaggio, per attività illegali come la produzione o vendita di stupefacenti, o per forme mascherate di adozione internazionale». Infine, assomiglia alla schiavitù la condizione di «tutti coloro che vengono rapiti e tenuti in cattività da gruppi terroristici, asserviti ai loro scopi come combattenti o, soprattutto per quanto riguarda le ragazze e le donne, come schiave sessuali. Tanti di loro spariscono, alcuni vengono venduti più volte, seviziati, mutilati, o uccisi».

Perché accade tutto questo? Perché la schiavitù? È certamente legittimo e necessario che politologi e sociologi si interroghino sulle cause di ogni singolo fenomeno. Ma la Chiesa chiama le cose con il loro nome e insegna che la causa ultima della schiavitù è il peccato. «Oggi come ieri, alla radice della schiavitù si trova una concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto. Quando il peccato corrompe il cuore dell’uomo e lo allontana dal suo Creatore e dai suoi simili, questi ultimi non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti. La persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio, con la forza, l’inganno o la costrizione fisica o psicologica viene privata della libertà, mercificata, ridotta a proprietà di qualcuno; viene trattata come un mezzo e non come un fine».

Questa è la «causa ontologica» della schiavitù, che non nega ma spiega le cause sociologiche, economiche e politiche, che spesso rimandano alle forme più gravi di miseria, «Non di rado, le vittime di traffico e di asservimento sono persone che hanno cercato un modo per uscire da una condizione di povertà estrema, spesso credendo a false promesse di lavoro, e che invece sono cadute nelle mani delle reti criminali che gestiscono il traffico di esseri umani. Queste reti utilizzano abilmente le moderne tecnologie informatiche per adescare giovani e giovanissimi in ogni parte del mondo». Anche «la corruzione di coloro che sono disposti a tutto per arricchirsi va annoverata tra le cause della schiavitù»: coinvolge la politica, e rimanda al peccato.

Che fare, allora, contro la schiavitù? Studiando questo dramma, spesso «si ha l’impressione che esso abbia luogo nell’indifferenza generale». Va però ricordato «l’enorme lavoro silenzioso che molte congregazioni religiose, specialmente femminili, portano avanti da tanti anni in favore delle vittime» e che coinvolge tutta la Chiesa, anche laddove la schiavitù in senso proprio esiste ancora. Ma la Chiesa non può rispondere alle tante forme di schiavitù da sola: «Come le organizzazioni criminali utilizzano reti globali per raggiungere i loro scopi, così l’azione per sconfiggere questo fenomeno richiede uno sforzo comune e altrettanto globale da parte dei diversi attori che compongono la società», Stati, organizzazioni internazionali, ONG, imprese e anche consumatori, che dovrebbero imparare a rifiutare i prodotti nella cui fabbricazione sono stati impiegati lavoratori schiavi.

Mentre svolge da anni un ruolo di coordinamento, la Chiesa non rinuncia a denunciare il peccato come causa profonda della schiavitù e a ricordare come ogni azione di contrasto debba «partire dalla verità sull’uomo». La Chiesa non può limitarsi a considerazioni sociali, ma «ha il compito di mostrare a tutti il cammino verso la conversione». Per quanto riguarda in particolare la schiavitù la Chiesa ha canonizzato santa Giuseppina Bakhita, una «santa originaria della regione del Darfur in Sudan, rapita da trafficanti di schiavi e venduta a padroni feroci fin dall’età di nove anni, e diventata poi, attraverso dolorose vicende, “libera figlia di Dio” mediante la fede vissuta nella consacrazione religiosa e nel servizio agli altri, specialmente i piccoli e i deboli». Santa Giuseppina Bakhita è vissuta fra il XIX e il XX secolo, ma «è anche oggi testimone esemplare di speranza per le numerose vittime della schiavitù e può sostenere gli sforzi di tutti coloro che si dedicano alla lotta contro questa piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo».

«Sappiamo - conclude il Messaggio - che Dio chiederà a ciascuno di noi: “Che cosa hai fatto del tuo fratello?” (cfr Gen 4,9-10). La globalizzazione dell’indifferenza, che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità, che possa ridare loro la speranza e far loro riprendere con coraggio il cammino attraverso i problemi del nostro tempo e le prospettive nuove che esso porta con sé, e che Dio pone nelle nostre mani».