Gli imbarazzati e i tranquillanti
Il Papa è un re che, per molti suoi sudditi, è nudo. Una nudità che imbarazza, per metodi, messaggi, affermazioni e atteggiamenti. A questo imbarazzo, alcuni rispondono con dosi sempre più massicce di tranquillanti. Ma è il modo giusto di affrontare un problema che c'è?
Il Papa è un re. E a detta di molti è nudo. Ciò provoca non poco imbarazzo nei sudditi del re. La nudità papale secondo alcuni nasce dai seguenti atteggiamenti e affermazioni che qui meramente registriamo.
Una certa confusione sul concetto di umiltà – che può e deve riguardare le persone, anche quella di Bergoglio – ma che non può interessare il munus petrino, non può riguardare Papa Francesco. La semplicità del linguaggio che non può scadere nella banalizzazione e nell’imprecisione espressiva e quindi nell’ambiguità (la semplicità va a braccetto con la precisione e la profondità, non con la scontatezza): la rivista gay The Advocate lo ha eletto uomo dell’anno mettendo in copertina il volto del Papa e la celebre frase pronunciata sull’aereo di ritorno dal Brasile. Caso di strumentalizzazione del suo pensiero? Certo, ma fino ad un certo punto: infatti Benedetto XVI non sarebbe mai finito su The Advocate (se non per motivi opposti).
Il rimando ai principi primi della fede, ma che non può scivolare nelle regole base della buona educazione, una specie di “etichetta cattolica” (in famiglia “permesso, grazie, scusa […] sono le tre parole della convivenza” ha detto il Papa qualche giorno fa). Una giustificata predilezione pastorale per la fede accompagnata da una quasi dimenticanza – meno giustificata - degli aspetti dottrinali morali di carattere razionale utili nel processo di evangelizzazione: al divorziato che è pure indifferente a Dio è poco efficace dirgli: “Gesù ti ama” (Dio viene prima della morale – verità teoretica - ma quest’ultima può essere strada per arrivare a Lui – possibile verità pastorale). Un rilancio della missionarietà però senza tener conto che prima occorre formare i missionari (e sappiamo quanto i cattolici abbiano le idee confuse sulla propria religione). Un posizionamento in secondo piano di alcuni fenomeni sociali – aborto, teoria del gender, distruzione della famiglia – per privilegiarne altri che oggettivamente sono di minore gravità. Una predilezione quasi esclusiva per la figura del Dio misericordioso a discapito del Suo ruolo anche di giudice: da qui le celebri uscite sulle persone omosessuali, sui divorziati, sui conviventi e sulle donne che hanno abortito.
Ma forse l’imbarazzo maggiore – così ci sembra di registrare - è dato da uno stile di pensiero impregnato da una prospettiva immanentista-storicista più che trascendente, la quale si concretizza nei seguenti elementi concettuali che hanno come minimo comun denominatore un’inversione – ma non una cancellazione - di alcuni termini propri dell’insegnamento del Magistero. Un insistente pauperismo: vedi ad esempio il primato dei poveri (ma il primato è sempre di Cristo) e la carità intesa in senso solo materiale: «l’amore cristiano è concreto: […] dare da mangiare agli affamati, visitare gli ammalati e tante cose concrete» con buona pace di Maria che rispetto a Marta si era presa la parte migliore.
La qualificazione della Chiesa solamente come Popolo di Dio e non prima come Corpo mistico di Cristo. Il sovraordinare la prassi – cioè la pastorale – alla norma – cioè la dottrina («chi tende in maniera esagerata alla ‘sicurezza’ dottrinale […] ha una visione statica e involutiva») - tanto che le chiese locali potranno avere competenze dottrinali (cosa impossibile poi da predicare se con “dottrina” ci riferiamo al diritto divino positivo e alla legge naturale) proprio perché si intende la pastorale (il fatto) come fonte della dottrina (il principio): «La nostra non è una fede-laboratorio, ma una fede-cammino, una fede storica. Dio si è rivelato come storia [non nella storia, si badi bene, seppur in un altro passo dell’Evangelii Gaudium lo affermi, n.d.a.]»). Enunciato che rimanda alla ormai nota immagine della Chiesa intesa più come ospedale da campo che come custode del depositum fidei, immagine in cui si mette al primo posto l’agere (l’agire) più che l’esse (l’essere), la prassi più che la speculazione, invertendo così la dinamica naturale dell’azione morale e di quella di Dio sugli uomini tramite la Rivelazione dove l’ontologia ordina la deontologia, cioè le condotte di morale e di fede («La nostra vita non ci è data come un libretto d’opera in cui c’è tutto scritto, ma è andare, camminare, fare, cercare, vedere…»).
Una sorta di filantropia religiosa dove si raggiungono le periferie esistenziali non per convertire bensì per risollevare l’uomo dalle sue miserie materiali, psicologiche e sociali. Lo strumento del dialogo che riecheggia tanto la dialettica hegeliana degli opposti: «Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo. […] I conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità» dice il Papa nell’Evangelii Gaudium e il passaggio ricorda molto da vicino la triade conflittuale tesi-antitesi-sintesi del filosofo di Stoccarda, dove i primi due termini si risolvono nel terzo.
Una visione progressista della storia la quale procede sempre avanti e mai deve indietreggiare che mal si concilia invece con l’economia della salvezza: «la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile». Una ermeneutica della liturgia sbilanciata più sull’aspetto partecipativo (piano orizzontale) che sacro (piano verticale, ricordiamo le sue parole sul Vetus Ordo).
Una predilezione verso una verità fenomenologica, che lascia per sua natura maggiori spazi al dubbio, più che ad una di ordine metafisico, la quale insiste su elementi gnoseologici assoluti e certi («Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. […] L’incertezza si ha in ogni vero discernimento»).
Naturalmente dobbiamo registrare anche la presenza – ci pare maggioritaria – di quei cattolici che con grandi dosi di Tavor ermeneutico riescono ad interpretare alla luce del Magistero alcuni gesti e parole oversize del Pontefice tranquillizzando tutti sul fatto che il Santo Padre non è nudo per nulla. Ad esempio il partito del Don’t panic in merito ai passi citati più sopra potrebbe obiettare che il Papa non esclude la dottrina, la giustizia divina, il senso del sacro, etc. e, per suffragare tale tesi, potrebbe citare altri passi suoi attuali (si veda l’intervento sull’aborto di ieri) o di qualche anno fa oppure tirare fuori dalla naftalina filosofi, santi e teologi del passato che dovrebbero fungere da occhiali per leggere correttamente il Francesco-pensiero.
La probabile risposta, invece, del partito degli imbarazzati potrebbe articolarsi come segue. In merito all’interpretazione da farsi attraverso altri interventi del Papa o saggi di autori a lui affini si risponde con una domanda retorica: ma questo Papa non era il Papa semplice semplice comprensibile da tutti? Tanto sforzo ermeneutico è la prova provata che come minimo alcune sue uscite sono ambigue.
Inoltre, sempre riguardo all’interpretazione di alcuni passi problematici, il partito degli imbarazzati potrebbe ricordare che la risposta non può essere antecedente alla domanda. Detto in altri termini: non posso interpretare le parole di Tizio avendo già in mente il loro significato prima di leggere queste stesse parole e, più in particolare, dando per certo che Tizio mai cadrà in errore. Lo scrivente si permette di citare un passaggio di un suo articolo. Se ci dicessero che il Papa ha affermato che «‘Nei grandi problemi pratici della vita, la verità è soprattutto una questione di conciliazione e di combinazione degli opposti’, subito gli ermeneuti della continuità interpreterebbero l’affermazione come indicazione pedagogica per condurre i lontani verso la verità tutta intera attraverso un percorso a tappe, mediando dove si può mediare ma non facendo sconti alla verità stessa. Peccato che questa frase sia di Stuart Mill che nella sua celebre opera “On Liberty” voleva sostenere proprio l’opposto. Questo per dire che, volendo, tutto - anche ciò che non appartiene al depositum fidei - possiamo cacciarlo a forza dentro lo scrigno della fede».
Infine, tenuto fermo che il Papa sia per l’et-et e non per l’aut-aut, gli imbarazzati ricordano che alcuni et sono più importanti di altri. E spesso – così mormora qualcuno - l’ordine di Francesco pare non rispettare quello del Magistero.
Se il Codice di Diritto Canonico (cann. 212, 218) e i documenti conciliari Lumen Gentium (37) e Gaudium et spes (62) considerano legittimo criticare i pastori, stante alcune circostanze e seppur con “verità, fortezza e prudenza, con rispetto e carità” nonché con umiltà, ciò vuol dire che è possibile che i pastori errino. Certo, in questo caso stiamo parlando del Papa e le cose si fanno più difficili e dolorose perché da una parte c’è la verità del Magistero – metro di giudizio per misurare anche il Papa – verità che è sempre da difendere e dall’altra l’autorità del Pontefice che anch’essa è sempre da tutelare.
Come uscirne? Abbozziamo una risposta. La denuncia per la denuncia non serve molto. Meglio confrontarsi senza scandalizzare i “piccoli”, non per trovare capi di accusa contro terzi ma per capire/capirsi e – speranza pia? – forse per tentare di sollecitare i piani alti. Seconda soluzione: approfittare delle parole e gesti del Papa per ripresentare il portato dottrinale e culturale della Chiesa. La quale – come corpo mistico di Cristo – è sempre con noi e mai ci abbandonerà.