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FEDE E LETTERATURA

Giovanni Verga e la schiavitù del possesso

Guadagnare il mondo intero, ma poi perdere sé stessi. Ne vale la pena? Con La roba e poi Mastro Don Gesualdo, lo scrittore siciliano afferma il contrario. Una vita passata a mettersi al sicuro dall'imprevisto, inseguendo il successo e le cose, alla lunga trasforma in cosa anche il cuore.

Cultura 10_02_2013
Giovanni Verga

La produzione di Giovanni Verga (1840-1922) è, in gran parte, specchio della vita dell’autore, soprattutto quando descrive il desiderio di successo e, nel contempo, il sacrificio delle radici, delle tradizioni e degli affetti in nome della conquista dell’obiettivo tanto agognato. Lo scrittore siciliano si trasferì da Catania a Firenze per approdare poi a Milano, la capitale economica ed editoriale dell’allora Regno d’Italia. Vagando per le diverse città, corteggiò spesso donne già impegnate e non creò radici affettive. Il successo economico lo baciò non tanto per la vasta produzione romanzesca, che ottenne un certo consenso da parte della critica, pur se non di pubblico, ma in seguito alla sceneggiatura di una sua novella, quella Cavalleria rusticana che venne musicata da Mascagni e rappresentata alla Scala. Nel 1893 Verga ritornò in Sicilia, rinchiudendosi, a quanto è testimoniato, in un cupo silenzio e in una improduttività letteraria per quasi trent’anni (pubblicò, infatti, pochissimo dopo Mastro don Gesualdo uscito nel 1889).

Nella Prefazione al romanzo Eva, Verga sostiene che la sua opera è specchio della società e della cultura in cui vive. Se i personaggi sono, spesso, scioperati e dissoluti, alla ricerca solo di donne e di denaro, il pubblico non se la prenda con lui che scrive, ma con la società: «Non maledite l'arte che è la manifestazione dei vostri gusti. I Greci innamorati ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il «cancan» litografato sugli scatolini dei fiammiferi. Non discutiamo nemmeno sulle proporzioni; l'arte allora era una civiltà, oggi è un lusso: anzi, un lusso da scioperati».

Ecco, per così dire, tratteggiata la distanza tra la cultura greca e quella moderna, tra una civiltà in cui l’arte aspirando al bello e al buono rivelava l’animo stesso dell’uomo e quella odierna in cui «la civiltà è il benessere». Al riguardo scrive Verga: «In fondo ad esso [il mondo moderno], quand'è esclusivo come oggi, non ci troverete altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la logica, che il godimento materiale. In tutta la serietà di cui siamo invasi, e nell'antipatia per tutto ciò che non è positivo – mettiamo pure l'arte scioperata – non c'è infine che la tavola e la donna. Viviamo in un'atmosfera di Banche e di Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è la esuberanza di tal vita».

Per questo non può essere messa sotto processo l’arte «che ha il solo torto di avere più cuore di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create, – voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l'onore là dove voi non lasciate che la borsa, – voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivalini inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l'arte raccoglie e che vi getta in faccia». Tanti personaggi dei romanzi verghiani sono l’emblema di questa ricerca del successo, vittime predestinate della femme fatale.

Un personaggio su tutti è, però, la stigmatizzazione dell’idolo della roba e del possesso, quel Mazzarò che è descritto nella novella La roba. Cresciuto lontano dagli affetti familiari e dalle amicizie, dedito soltanto al lavoro, divenuto ragazzo inizia ad acquistare terreni con i soldi che riesce ad accantonare col sudore. Ben presto il suo diventa un patrimonio non monetario, ma fondiario tanto che i suoi possedimenti assorbono anche quelli del barone presso cui lavorava e che si era nel tempo indebitato. Non un piacere o un affetto amicale o muliebre allieta, però, le sue giornate. «Non beveva vino, non fumava, non usava tabacco […]. Non aveva il vizio del gioco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre».

Quando gli muore la madre, ormai adulto e gran possidente, si dispiace solo del fatto che abbia dovuto impegnare «dodici tarì» per il suo funerale. La gente lo invidiava, ma «non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera e come quella testa che era un brillante avesse lavorato  giorno e notte, meglio di una macina di mulino, per fare la roba». Il tempo passa inesorabile anche per Mazzarò, la vecchiaia incombe segnando sempre più la sua solitaria lamentela: «Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla!». Quando Mazzarò si ammala e i medici gli comunicano che ha poco tempo da vivere, furioso ammazza «le sue anitre e i suoi tacchini», gridando: «Roba mia, vientene con me». Il suo cuore è più che indurito, è come cosificato, divenuto della stessa sostanza della roba. È proprio vero, come affermava il grande san Tommaso, che la vita dell’uomo consiste dell’affetto che maggiormente lo sostiene. Mazzarò non è triste, ma arrabbiato con gli altri e con la vita. Lui che non ha conosciuto altra legge che il possesso non ha nostalgia o rimpianto, non è cosciente di non aver vissuto e di non aver guardato in faccia la realtà. Manca in lui qualsiasi consapevolezza che la vita è domanda, ricerca e viaggio verso un destino.

Come è noto il personaggio di Mazzarò sarà lo spunto per la genesi del romanzo Mastro Don Gesualdo. L’omonimo protagonista rispecchia in parte il suo antenato per l’arricchimento e la scalata sociale, ma ha un cuore che palpita e una consapevolezza che si risveglia in lui di fronte alla malattia e alla solitudine. Nel corso degli anni il muratore si arricchisce e diventa imprenditore. Trova l’amore nella figura della serva Diodata da cui ha anche dei figli. Preferisce, però, sposarsi con un’aristocratica spiantata, Bianca Trao, da cui riceve il titolo nobiliare, ma non l’affetto. Anzi, l’accesso alla classe sociale aristocratica è mal visto dai parenti di lei e dagli altri nobili e, nel contempo, accresce la distanza dai vecchi amici più poveri. Morta la moglie e ammalatosi, Mastro Don Gesualdo trascorrerà le ultime settimane di vita, nel palazzo della figlia, la duchessa di Leyra. Frutto, in realtà, della relazione che Bianca Trao ha avuto prima di sposarsi, non avrà mai una confidenza personale con il padre neanche quando questi giunge nel suo palazzo ammalato di tumore.

Tristi sono le ultime pagine del romanzo in cui il protagonista in maniera cosciente percepisce di essere solo. Lei, la figlia, è una Trao, un’aristocratica, lui, Gesualdo, sente di essere tornato Motta. Una notte, Don Gesualdo sta male e chiede al servo di andare a chiamare la figlia. Il servo annuisce, ma torna a dormire. Il povero Gesualdo si congeda dalla vita, solo, senza il conforto di alcuno, anzi vilipeso dai servi, che non tollerano che uno nato povero possa cambiare classe sociale. Questi sono i commenti alla sua morte: «Uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai […]. Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti non si parla. […] Guardate le mani! […] Già, son le mani che hanno fatto la pappa!».
Sembrano qui profeticamente compiersi le parole di Gesù quando avverte: «Quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita?»