Giornata dell'Ambiente, liturgia da religione di Stato
Da qualche anno la Giornata dell'Ambiente sta diventando la principale liturgia di quella nuova “religione di Stato” della globalizzazione che è ormai divenuto l’ambientalismo. Facendo leva sull’ambiente, bene tipicamente indivisibile, si va così a riproporre il mito, già in precedenza catastroficamente fallito, dell’economia pianificata e quindi della dittatura illuminata dei pianificatori. E’ una trappola in cui sarebbe meglio cercare di non cadere.
Per celebrare la Giornata mondiale dell’Ambiente in tutto il mondo hanno avuto luogo ieri centinaia di iniziative simboliche, dalla pulizia di spiagge a escursioni guidate nella natura. In sé e per sé si è trattato in genere di iniziative meritorie. Se però ci si prende la briga di andare oltre l’entusiasmo ufficiale dei media allora ci si accorge come da qualche anno la Giornata stia diventando la principale liturgia di quella nuova “religione di Stato” della globalizzazione che è ormai divenuto l’ambientalismo. Una liturgia culminata anche ieri sera con la solenne illuminazione in verde di edifici e monumenti-simbolo qua e là nel mondo: dall'Empire State Building di New York al Burj Khalifa di Dubai (e anche, ahimè, al Cristo Redentor di Rio de Janeiro).
Vale allora la pena di comprendere la sostanza della questione, che in realtà è molto più filosofica e politica che scientifica. Occorre per questo prendere le mosse dal pilastro su cui si fonda l’intera ideologia ambientalista: l’idea cioè che la presenza dell’uomo abbia a priori un effetto squilibrante sull’ambiente. Essendo consapevole, intelligente e creativo, l’uomo non subisce passivamente la “legge di Darwin” ossia la selezione naturale, ma reagisce ad essa con invenzioni e con iniziative che la contrastano.
Per i “verdi”, per i quali la selezione naturale è un dogma, tutto questo darsi da fare dell’uomo è insopportabile: non è una risorsa buona, magari da imparare a usare meglio. E’ comunque qualcosa di sacrilego. In tale prospettiva - di pari passo con il procedere dello sviluppo e con il progresso delle conoscenze e delle tecniche - l’effetto squilibrante della presenza umana sulla Terra continua a crescere. E ai giorni nostri è giunto a costituire una minaccia per la stessa sopravvivenza del pianeta in quanto dimora di animali e piante (e magari anche di uomini).
A questo punto la filosofia dell’uomo come pericoloso intruso nella natura si incontra con la questione del riscaldamento globale. In realtà in epoca storica, per non dire nelle migliaia di millenni che la precedettero, il clima è vistosamente mutato più volte: negli ultimi mille anni almeno tre volte, se non di più. Il termometro è un’invenzione recente, ma ci sono molti altri modi per valutare indirettamente tali variazioni. Ad esempio statuti di Comuni medioevali che fissano norme su coltivazioni oggi non più possibili in pieno campo alle loro latitudini, oppure notizie di itinerari carovanieri sulle Alpi attraverso valichi oggi costantemente innevati e percorribili soltanto con gli sci. O ancora quadri di maestri della pittura fiamminghi e inglesi che raffigurano gelati d’inverno fiumi come il Tamigi o come braccia del delta del Reno e canali dei Paesi Bassi che oggi non gelano mai.
Sulla base di una serie brevissima di rilevazioni, i sostenitori dell’origine antropica dell’attuale “riscaldamento globale”, che peraltro ha già cominciato a rallentare, pretendono invece che esso sia una conseguenza attuale dell’industrializzazione e dell’uso di combustibili di origine fossile. Diciamo subito che - diversamente da quanto si vuol spesso far credere - non c’è al riguardo alcuna certezza. Persino l’enciclica Laudato si’, il documento del Magistero pontificio che più concede a tale posizione, non accredita affatto tale tesi come indiscutibile. Al suo paragrafo 23, nell’ambito di un’argomentazione piena di cautele, non va oltre l’invito a “combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano” (la sottolineatura è nostra).
Resterebbe poi da vedere, ma non ci soffermiamo qui sulla questione, se un peraltro modesto aumento della temperatura media del globo sarebbe una così grave disgrazia. I secoli in cui la temperatura è aumentata (ad esempio tra il Mille e l’inizio del Milletrecento) furono di grande sviluppo, mentre l’epoca più fredda che li seguì vide l’umanità falcidiata da pestilenze e carestie.
Perché dunque c’è chi con grande ardore pretende perentoriamente che i recenti mutamenti climatici siano dovuti soltanto o per lo più all’attività dell’uomo? Per un motivo prettamente politico. Se infatti, come è, l’impatto dell’inquinamento è locale o regionale nel senso ampio del termine, e non provoca il processo ma al massimo lo accentua, allora il dovere di contrastarlo attiene alla responsabilità del popolo e del governo di ogni Paese sovrano, compatibilmente con il bene comune considerato nel suo insieme.
Se invece il suo impatto è determinante e ipso facto globale, se insomma l’ambiente è un bene comune indivisibile in pericolo alla scala planetaria, allora diventa possibile riproporre, e per di più alla scala del mondo intero, l’antico progetto di Marx e di Lenin. Facendo leva sull’ambiente, bene tipicamente indivisibile, si va così a riproporre il mito, già in precedenza catastroficamente fallito, dell’economia pianificata e quindi della dittatura illuminata dei pianificatori. E’ una trappola in cui sarebbe meglio cercare di non cadere.