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LA MOSTRA DEL MEETING

Giobbe, la ribellione o la sottomissione?

Il grido, la ribellione davanti al male, al dolore, all’“enigma della sofferenza innocente”: questo è Giobbe come emerge nella mostra a lui dedicata dal Meeting di Rimini. Peccato che fra i tanti pannelli della mostra non abbiano trovato spazio almeno alcune fra le tante meditazioni che sulla figura di Giobbe ha fatto il Servo di Dio don Luigi Giussani. Avrebbero aiutato a capire meglio.

Cultura 27_08_2018

Il grido, la ribellione davanti al male, al dolore, all’“enigma della sofferenza innocente”: questo è Giobbe come emerge nella mostra a lui dedicata dal Meeting di Rimini.

“L’uomo moderno – sostiene uno dei curatori - può capire o almeno intuire alcuni aspetti del dolore di Giobbe meglio che un uomo medievale”. Ed è proprio “l’attualizzazione del dramma di Giobbe nell’uomo contemporaneo” il tratto distintivo del percorso nelle sale: “Auschwitz, i rifugiati, la malattia, il terremoto... Questi problemi noi come contemporanei abbiamo la fatica di capire che senso hanno”.

Un aspetto di lancinante drammaticità che alla fine trova una risposta, come ha detto don Julián Carrón intervenendo a Rimini: “Il figlio di Dio non è venuto per distruggere la sofferenza, ma per soffrire con noi, per fare in modo che la nostra familiarità con Lui abbia la meglio su ogni sospetto che può nascere davanti al dolore”. Una risposta vera, concreta e totale.

Peccato che fra i tanti pannelli della mostra non abbiano trovato spazio almeno alcune fra le tante meditazioni che sulla figura di Giobbe ha fatto il Servo di Dio don Luigi Giussani. Avrebbero aiutato a capire meglio. Per il sacerdote di Desio, infatti, più che incarnare la ribellione, Giobbe è “tra gli esempi più perfetti di sottomissione a Dio che la Bibbia ci propone”; lui che “privato dei figli e delle ricchezze, abbandonato dalla moglie e dagli amici, coperto di piaghe schifose, ma ancora fiducioso nell’Altissimo, rimarrà sempre tra le figure eccezionali della storia religiosa dell’umanità” in quanto fa risaltare “la dipendenza originale dell’uomo”. “Dopo tutti i malanni che Dio gli aveva dato, diceva: «Anche se mi uccidesse, io spererò in Lui»” - incalza Giussani -, “il diavolo gli distrugge tutto; e quando tutto è distrutto, lo stupore del vero resta” in Giobbe.

Ecco perché il fondatore di CL proponeva Giobbe come modello agli aderenti al movimento: “Il riconoscimento di Giobbe, l’abbandono di Giobbe deve essere il nostro. Perché nel sacrificio della circostanza l’amore al nostro io diventa più grande ... diventa eterno, tocca il suo destino”; “«Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Come piacque al Signore così è avvenuto. Sia benedetto il nome del Signore. Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?». Se da Dio accettiamo il bene, quello che immediatamente ci corrisponde, perché non dobbiamo accettare il male, quello che non ci corrisponderebbe immediatamente? Per una costruttività. Tutto: l’istante, le circostanze, la nostra disponibilità, la nostra obbedienza fino all’incomprensibile sacrificio, sono per una costruzione”.

E’ la stessa cosa – pur con diverso linguaggio - che diceva un medievale, non un moderno, papa Gregorio Magno, commentando appunto lo stesso passo biblico (Gb 2,10): “Noi entrammo in conflitto con Dio a causa della colpa. È giusto dunque che torniamo in pace con lui per mezzo dei flagelli. Quando infatti ogni cosa creata bene si volge per noi in sofferenza, siamo ricondotti sulla retta via, e l’anima nostra è rigenerata con l’umiltà alla pace del Creatore”.

Infatti, tornando alla lettura giussaniana di Giobbe, “l’inizio del peccato è l’affermazione della propria ragione (cioè della propria misura, ndr) nel giudizio di valore” davanti alle circostanze.

Altro che Voltaire, l’uomo moderno indicato dalla mostra del Meeting come “simile a Giobbe” in quanto – citiamo da un pannello in mostra - “allontanatosi dai «suoi amici», avvocati difensori di una fredda Provvidenza, si rivolge a un Dio che possa spiegare la sua opera” (“Muta è Natura e invan la interroghiamo: / ci occorre un Dio che parli all’uomo; / spetta a lui di spiegar l’opera sua, / di consolare il debole e illuminare il saggio”).

E’ il punto in cui la mostra, illustrando lo schematismo dei tre amici di Giobbe, si scaglia contro “la riduzione del cristianesimo a dottrina della retribuzione”: “purtroppo, anche dentro la Chiesa troviamo spesso riproposto il discorso degli amici di Giobbe. Perfino nelle prediche davanti alla sofferenza che sembra innocente”. Il pannello successivo mette al muro come colpevole il padre Paneloux, gesuita, nella prima delle sue omelie (da “La peste” di Albert Camus).

Schematismo per schematismo: ecco gli amici di Giobbe, certamente limitati e aridi, divenire il simbolo della “dottrina tradizionale”, della “fredda legge” e così via. Ma dottrina e legge dovrebbero essere ben spiegate, prima di essere gettate nel cestino come succede ormai sempre più spesso. Basta prendere in mano una qualunque edizione della Bibbia, ed ecco trovata la spiegazione degli esegeti: lo schema retributivo preso di mira al Meeting era quello degli israeliti che, al tempo della composizione del libro di Giobbe, non avevano ancora avuto la Rivelazione della vita eterna con la risurrezione dopo la morte, vita eterna nella quale sarà ristabilita la giustizia. Ed è alla luce della Rivelazione che si spiega il vero senso della retribuzione così come la fede cattolica lo ha sempre inteso – vedi i numerosi e precisi rimandi presenti nel catechismo dei giorni nostri.