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CONTINENTE NERO

Genocidio in Rwanda, non c'è pace 29 anni dopo

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Il 7 aprile del 1994 in Rwanda iniziava il genocidio dei Tutsi. In 100 giorni i soldati dell’esercito governativo Hutu e i paramilitari fecero 940mila morti. Finito il genocidio, con la presa del potere da parte di Paul Kagame (di etnia tutsi), il conflitto tribale si è trasferito nel vicino Congo, dove tuttora continua a bassa intensità. E rischia di intensificarsi. 

Esteri 07_04_2023
Rwanda 1995, bambini detenuti incriminati per il genocidio

Il 7 aprile del 1994 in Rwanda iniziava il genocidio dei Tutsi. In 100 giorni i soldati dell’esercito governativo Hutu,  i combattenti delle milizie Hutu paramilitari interahamwe e i volontari delle cosiddette “forze di difesa civile”  uccisero circa 940mila persone, secondo le stime ufficiali ( più di un milione secondo altre fonti), assecondati da gran parte della popolazione Hutu, aizzata contro i Tutsi da una propaganda razzista durata mesi. Fino ad allora, l’ostilità tra la maggioranza Hutu, al governo, e la minoranza Tutsi aveva dato luogo a scontri, conflitti e tensioni ricorrenti, come succede in tutta l’Africa, un continente la cui storia è dominata dal razzismo tribale. Ma da quel giorno fu una caccia spietata ai Tutsi, per sterminarli, e con loro furono uccisi anche tanti Hutu perché ad esempio appartenenti a clan avversari di quelli al potere. Il genocidio era stato pianificato da tempo, negli anni precedenti erano stati acquistati centinaia di migliaia di machete: insieme a lance, mazze e asce, le armi con cui gran parte delle persone furono uccise.

A mettere fine alle stragi furono i Tutsi della diaspora, fuggiti negli anni precedenti in Uganda dove avevano costituito il Fronte patriottico rwandese (Fpr) e avevano ricevuto addestramento militare. Guidati da Paul Kagame, i soldati dell’Fpr entrarono in Rwanda, marciarono sulla capitale Kigali e all’inizio di luglio presero il potere. Allora più di due milioni di Hutu cercarono scampo alla vendetta Tutsi oltre confine, in gran parte riversandosi nell’est della Repubblica democratica del Congo (all’epoca ancora chiamato Zaire), dove le Nazioni Unite allestirono in brevissimo tempo il più grande campo profughi del mondo, nei pressi di Goma, la capitale della provincia del Nord Kivu.

Seguirono anni difficili durante i quali migliaia di responsabili dei massacri, autori materiali e istigatori, furono individuati, incarcerati e processati: alcuni consegnati a un tribunale speciale creato dalle Nazioni Unite, la maggior parte giudicati da tribunali rwandesi e, a partire dal 2001, da tribunali popolari chiamati gacaca, creati sul modello dei consigli di villaggio. Tuttora il governo rwandese continua la ricerca dei criminali, ovunque nel mondo.

Non c’è rwandese che non conti in famiglia una vittima o un carnefice. Oltre ai morti, decine di migliaia di persone furono ferite e tuttora portano impresso nel corpo il ricordo del genocidio. Si calcola inoltre che da 250mila a mezzo milione di donne siano state violentate. Tuttavia il paese, sebbene con grande difficoltà, è tornato gradualmente alla normalità e oggi è tra i più stabili del continente. Vanta una crescita economica costante e sostenuta, aumenti del Prodotto interno lordo che in media superano il 5% annuo. Da quando 33 anni fa l’Onu ha iniziato a pubblicare l’Indice di sviluppo umano, il Rwanda risulta essere il paese che ha fatto più progressi e, dato di estrema importanza se attendibile, secondo l’Indice di percezione della corruzione è il terzo paese meno corrotto del continente.

Perché si conservi memoria del genocidio ogni anno il governo rwandese organizza cerimonie ufficiali nella capitale e nel resto del paese e nel 2004, nel decimo anniversario, le Nazioni Unite hanno proclamato il 7 aprile Giornata internazionale di riflessione sul genocidio contro i Tutsi in Rwanda

La stabilità però ha un prezzo. Paul Kagame è presidente dal 2000, ma di fatto governa dal 1994 e lo fa con gli strumenti di un regime autoritario anche se molti lo considerano sì, un dittatore, ma diverso dagli altri africani, “un dittatore benefico”, persino attento alla parità di genere. Non sono di questo avviso i suoi oppositori perseguitati. A suo favore, tuttavia, va il fatto che a lui, alle sue scelte di governo si deve, oltre al lungo periodo di stabilità, l’impegno del paese in un percorso di de-tribalizzazione che metta al sicuro le generazioni future.

È un impegno tanto più essenziale perché lo scontro tra Hutu e Tutsi dal Rwanda si è trasferito nella Repubblica democratica del Congo. Tra i due milioni di rwandesi fuggiti nell’est del Congo nel 1994 c’erano migliaia di soldati governativi e di combattenti interahamwe che non hanno rinunciato al loro progetto genocida. Nel 2000 hanno dato vita a un gruppo armato chiamato Forze democratiche per la liberazione del Rwanda tuttora attivo e militante, forte di molte migliaia di unità. Sono invece Tutsi i combattenti M23 che dallo scorso giugno hanno ripreso le armi anch’essi attivi nelle regioni orientali del Congo confinanti con il Rwanda e rafforzati dal sostegno del governo ruandese che, sebbene smentisca, sembra abbia inviato non solo armi, ma anche militari oltreconfine. Contro di loro, al fianco dei soldati congolesi, Kenya, Angola, Sudan del Sud e altri stati africani hanno già inviato truppe. Angola e Kenya hanno inoltre assunto il ruolo di mediatori, per il momento senza successo. Il Rwanda denuncia un nuovo sterminio di Tutsi in territorio congolese, ma intanto sono gli M23 che attaccano villaggi, fanno razzia bestiame e beni, uccidono civili inermi. Si è  forse a un passo da una nuova guerra panafricana, ancora una volta combattuta in Congo come le due precedenti e ancora una volta il Rwanda è tra i protagonisti principali.