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IL CASO

"Genitore" sui documenti? L'errore sta nella Cirinnà

Due donne, una madre biologica e l'altra adottiva di una bambina si vedono riconoscere sulla carta di identità il titolo di genitore. La decisione del giudice vìola il decreto Salvini, che rimarca la dicitura madre e padre, ma di fatto asseconda giustamente l'impossibilità di chiamare una delle due donne padre. Dove sta il corto circuito? Sta nella legge sulle unioni civili che ambiguamente, riconoscendo la stepchild adoption, apre un pertugio all'adozione proibita nel nostro ordinamento. 
- IL MATRICIDIO DELLA SINISTRA, di Andrea Zambrano

Famiglia 18_11_2022

Tiene banco sui media la vicenda di due “mamme” che si sono viste riconosciute il diritto di essere indicate entrambe nella carta d’identità di una minore come “genitore” e non come “padre” e “madre”.

Ricostruiamo la vicenda giuridica. Una donna mette al mondo una bambina e la sua compagna poi riesce ad adottarla. All’anagrafe di Roma, giustamente, fanno osservare che sulla carta d’identità della bambina l’unica dicitura apponibile, in riferimento ai genitori, è “padre” e “madre”. Non si può inserire due volte la voce “madre”, nonostante la bambina abbia una madre biologica ed una adottiva, né si può scrivere genericamente “genitore”, ipotesi quest’ultima espressamente negata dal Decreto Salvini del gennaio del 2019.

Tramite l’intervento degli avvocati Vincenzo Miri e Federica Tempori delle associazioni Rete Lenford e Famiglie Arcobaleno, la coppia omosessuale propone ricorso prima al Tar, il quale fa un passo indietro per motivi di competenza, e poi al Tribunale di Roma. Quest’ultimo dà ragione alle due donne e impone al Comune di Roma e quindi al Ministero dell’Interno di emettere una carta d’identità elettronica dove al posto di “padre” e “madre” compaia la dicitura “genitore”. Una nota di Palazzo Chigi fa sapere che la decisione del giudice sarà esaminata “con particolare attenzione perché presenta evidenti problemi di esecuzione e mette a rischio il sistema di identificazione personale”.

Salvini ha così twittato: “Usare sulla carta d’identità le parole 'padre' e 'madre' (le parole più belle del mondo) secondo il Tribunale civile di Roma sarebbe una violazione delle norme comunitarie e internazionali, da qui la decisione di sostituirle con la più neutra parola 'genitore'. Illegali o discriminanti le parole 'mamma' e 'papà'? Non ho parole, ma davvero".

Chi ha ragione: il giudice o Salvini? La questione, dal punto di vista giuridico, è complessa. Partiamo da ciò che ha scritto il giudice Francesco Crisafulli nell’ordinanza: “La carta d’identità è un documento con valore certificativo, destinato a provare l’identità personale del titolare, che deve rappresentare in modo esatto quanto risulta dagli atti dello stato civile di cui certifica il contenuto. Ora, un documento che, sulla base di un atto di nascita dal quale risulta che una minore è figlia di una determinata donna ed è stata adottata da un’altra donna, indichi una delle due donne come ‘padre', contiene una rappresentazione alterata, e perciò falsa, della realtà ed integra gli estremi materiali del reato di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico (artt. 479 e 480 cod. penale)".

In un altro passo, in modo analogo, si aggiunge: “Qui si discute dell'esistenza (o no) di un diritto delle due donne giuridicamente riconosciute come genitrici della bambina (l'una per esserne anche madre naturale, l'altra per averla adottata) a vedersi identificate, nella carta d'identità della figlia, in modo conforme alla loro identità sessuale e di genere, o comunque in termini neutri; e del diritto della minore stessa ad una corretta rappresentazione della sua situazione familiare, come figlia (naturale e giuridica) di due donne, quindi di due ‘madri’, o comunque di due 'genitori'. Sull'esistenza di tali diritti, in capo alle ricorrenti, non può nutrirsi alcun serio dubbio".

Queste parole fanno eco a quelle scritte dal Garante della Privacy nel 2018 che sulla dicitura “padre” e “madre” prevista dal Decreto Salvini aveva appuntato alcuni “profili di criticità nei casi in cui la richiesta della carta di identità, per un minore, è presentata da figure che esercitano la responsabilità genitoriale che non siano esattamente riconducibili alla specificazione terminologica 'padre' o 'madre' ”.

Su questo specifico aspetto il giudice del Tribunale di Roma ha ragione: dal punto di vista giuridico abbiamo due genitori femmine, quindi due madri. Se abbiamo due donne come genitori, una della due non può essere indicata come “padre”. Ecco allora la soluzione: identifichiamo entrambe le donne come “genitori”, in netta opposizione però al decreto Salvini. Detto ciò il giudice però doveva applicare il decreto Salvini e non aveva il potere per inventarsi una nuova anagrafe, perché questa eventuale decisione è di competenza del Parlamento. Al massimo poteva evidenziare la contraddizione di indicare come “padre” una donna. I giudici sono chiamati ad applicare le leggi, non ad inventarsele.

Il cortocircuito che si è creato è da addebitarsi al Tribunale che ha permesso alla compagna della madre biologica di adottare la bambina. Poteva farlo? La risposta è negativa. Infatti per il nostro ordinamento un bambino può avere come genitori solo un uomo e una donna, non due uomini o due donne. Questo principio sancito dalle leggi – compresa la legge sulle Unioni civili che però ha introdotto un pericoloso pertugio a favore dell’omogenitorialità – non è stato rispettato dai giudici e dai sindaci e quindi da tempo i minori possono avere come genitori legali due uomini o due donne. Le strade sono state molteplici: sentenza di adozione in casi particolari, la trascrizione di atti di nascita formati all'estero, il riconoscimento in Italia di provvedimenti di adozione pronunciati all'estero, la rettifica di attribuzione del sesso.

In sintesi è quindi successo questo: la legge Cirinnà al comma 20, in merito alla materia “filiazione” e pur vietandola per le coppie gay, prescrive in modo sibillino: “Resta fermo  quanto  previsto  e  consentito  in materia di adozione dalle norme vigenti”. La legge 184/83 prevede l’adozione in alcuni casi particolari che nulla riguardano le coppie omosessuali, ma che, in mano ai giudici e aggrappandosi al puntello normativo volutamente ambiguo contenuto nella Cirinnà, hanno permesso loro di consentire la stepchild adoption (è il caso della coppia romana che qui stiamo analizzando). Ne abbiamo parlato più volte (quiqui , qui e qui). Legittimato questo caso, per analogia sono stati legittimati anche gli altri itineres per riconoscere l’omogenitorialità, nonostante la legge li vieti.

E dunque come superare questa contraddizione interna dove, da una parte, le due donne sono legalmente genitori della minore - perché una madre biologica e l’altra madre adottiva per decisone di un giudice - e su altro fronte la compagna della madre biologica per legge non potrebbe rivendicare il titolo di “madre”? Se ne può uscire impugnando le decisioni giurisprudenziali e gli atti della Pubblica amministrazione perché contra legem e ribadendo che l’omogenitorialità è vietata, come affermò nel lontano luglio del 2018 l’allora Ministro della Famiglia Lorenzo Fontana: “Rilevo come l'attuale assetto del diritto di famiglia non possa non tenere in conto di cosa sta accadendo in questi ultimi mesi in materia di riconoscimento della genitorialità, ai fini dell'iscrizione dei registri dello stato civile di bambini concepiti all'estero da parte di coppie dello stesso sesso facendo ricorso a pratiche vietate dal nostro ordinamento e che tali dovrebbero rimanere".