Gender, inizia la rieducazione dei giornalisti
Nei nuovi corsi obbligatori per gli operatori dei media, organizzati dall'Ordine, viene spiegato ai giornalisti come l’informazione «deve essere» fatta e, cioè, piegandosi alle “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT”.
Caro Direttore,
in questo periodo molti giornalisti pubblicisti stanno frequentando corsi e incontri organizzati dall’Ordine sia a livello nazionale che regionale. Scopo di tutto questo è accumulare i crediti richiesti per poter rimanere iscritti all’Ordine stesso. Vorrei raccontarle il caso di quanto succede a Trieste.
Il 25 aprile, in un editoriale su Vita Nuova, il settimanale diocesano di Trieste da me diretto, avevo fatto presente che l’Ordine del Friuli Venezia Giulia dichiarava di organizzare i suddetti corsi di formazione in collaborazione alla Re.a.dy, la Rete della Pubblica amministrazione per la lotta contro la discriminazioni in base all’orientamento sessuale e che un tema dei corsi sarebbe stato anche l’identità di genere. Ormai sappiamo come vanno queste cose e per questo nell’editoriale avevo manifestato il fondato timore che anche la formazione dei giornalisti sarebbe stata usata per diffondere questa ideologia. Tanto più che, come ormai tutti sappiamo, il Dipartimento per le pari opportunità aveva diramato le ormai tristemente famose “Linee guida per una informazione rispettosa delle persone LGBT”, ove si imponeva ai giornalisti di non usare parole come “gay”, “lesbica”, “saffico” oppure le espressione “famiglia gay” o “nozze gay” in quanto discriminanti. Veniva vietato anche di adoperare l’espressione “famiglia naturale” o di dire che i figli hanno bisogno di un padre e di una madre. In quell’occasione il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti dichiarava di non aver adottato le Linee guida e che, nella sua qualità di unico ente in grado di fissare regole deontologiche per i giornalisti, aveva istituito una “Commissione pari opportunità” che stava studiando “l’uso di un linguaggio autenticamente rispettoso della persona” a proposito delle problematiche di genere. Che, come si sa, non vuol più dire, come in un recente passato, le problematiche relative alla pari dignità dell’uomo e della donna, ma quelle relative alla pari dignità di ogni orientamento sessuale e familiare. Però, in precedenza l’Ordine aveva dato il proprio patrocinio al ciclo di seminari di formazione per giornalisti intitolati “L’orgoglio e i pregiudizi”, svoltosi nell’ottobre 2013 a Milano, Roma, Napoli e Palermo, organizzati dall’UNAR, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Rzziali ormai famoso. Da quei seminari sono emerse in seguito le Linee guida di cui stiamo parlando. Qualcosa, quindi, puzzava.
Purtroppo quello che avevo temuto in quell’editoriale si è puntualmente verificato. Almeno a Trieste, ma si può ipotizzare che la situazione sia generalizzata. Il 9 maggio scorso si è tenuto l’incontro “Discriminazione femminile e sessualità di genere”, organizzato dall’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia assieme all’Assostampa e al Comune di Trieste, che aderisce alla Re.a.dy di cui si parlava sopra. La redattrice sociale Giorgia Serughetti, con il supporto della Vicesindaca (con la “a” finale antimaschilista, è stato fortemente suggerito) Fabiana Martini, ha spiegato ai giornalisti come l’informazione «deve essere» fatta e, cioè, piegando i lemmi della lingua italiana su quelli imposte dalle celebri “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT [Lesbica, Gay, Bisessuale, Transessuale/Transgender]”. Sui contenuti la Serughetti è stata chiara: sono argomenti su cui «si può certamente dialogare», ma il dialogo è «insufficiente a giustificare» la posizione di chi pensa che il matrimonio sia quello tra uomo e donna o di chi critica la «teoria del genere». E giù a proporre, senza contraddittorio, un coacervo di termini artificiosi, volti all’adesione entusiasta a quella strana teoria sociale secondo la quale il genere maschile e femminile è tutt’altro dal mero dato biologico reale: outing, coming-out, LGBT. Sbagliare un articolo qualificativo, in questo caos, equivale a meritarsi il titolo di «omofobo». Sottomettersi, al contrario, significa essere pronti al «dialogo».
L’incontro è stato caratterizzato dall’assenza completa di dialogo e confronto. Non una parola su tutta la pubblicistica in merito alla crisi della famiglia o al diritto del bambino ad avere un padre e una madre. Non un cenno - né da parte della Serughetti, né da parte della Martini - delle posizioni critiche espresse da molti. Non un cenno alle centinaia di migliaia di persone, specialmente in Francia e in Italia, che hanno più di una riserva proprio su questi temi (Manif pour tous, Sentinelle in piedi). Non un cenno agli omosessuali (uomini e donne) contrari alle nozze gay - ad esempio i centinaia di aderenti a HomoVox. Non una parola sul fatto che il dissenso provenga anche da persone lontane dalla fede o di un’altra credenza (musulmani francesi). Non una parola circa il dissenso politico, che riguarda esponenti sia di destra che di sinistra. Non una parola sulle posizioni della stampa locale nel merito: a parte Vita Nuova, che già si era espressa in abbondanza, le relatrici non hanno citato né Il Piccolo - che ha posizioni diametralmente opposte al quotidiano della Diocesi - né alcun altro periodico triestino o friulano.
Che dire? Una cosa certamente spiacevole è che questi corsi sono obbligatori. La seconda è che non rispettano minimamente l’abc della deontologia giornalistica che pure vorrebbero insegnare: aderenza ai fatti e garanzia del contraddittorio. La terza è che, purtroppo, i giornalisti che vi partecipano bevono senza protestare. Tranne i giornalisti di Vita Nuova.