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DITTATURA DI RITORNO

Gambia, era troppo bello per essere vero

Era troppo bello per essere vero: un capo di Stato africano che, dopo 22 anni ininterrotti di potere, accetta una sconfitta elettorale e si fa da parte. Succedeva in Gambia, con il presidente/dittatore uscente Jammeh. Per una settimana è andato tutto liscio. Poi il presidente ci ha ripensato e ora c'è già aria di golpe.

Esteri 17_12_2016
Yahya Jammeh

Era troppo bello per essere vero, un capo di stato africano da 22 anni al potere, definito non senza ragione “dittatore crudele” dall’opposizione e dai dissidenti perseguitati, che inaspettatamente riconosce la sconfitta elettorale, si congratula con l’avversario vittorioso e accetta di farsi da parte. Il presidente del Gambia Yahya Jammeh, preso atto dell’esito per lui negativo del voto svoltosi il 1 dicembre, pareva pronto a uscire di scena. Il 3 dicembre si era detto disposto ad aiutare Adama Barrow, il presidente neo eletto, durante il periodo di transizione. Il 7 dicembre aveva annunciato di volersi poi ritirare nel proprio villaggio natale, Kanilai. Il presidente della Commissione elettorale, Alieu Momar Njie, aveva commentato: “è un fatto straordinario che dopo tanti anni al potere il presidente di un paese accetti la sconfitta”. “È accaduto l’impensabile”, “ecco un esempio per l’Africa” commentavano gli esperti nei giorni successivi. 

Ma poi Yahya Jammeh ci ha ripensato. Il 9 dicembre ha dichiarato di ritenere il voto inaccettabile, falsato da gravi anomalie riscontrate e di avere quindi deciso di restare in carica fino a nuove elezioni, questa volta organizzate da una Commissione “timorata di Dio”. Il giorno successivo il suo partito, il Patriotic Reorientation and Construction Party, ha depositato un ricorso presso la Corte suprema che peraltro in questo periodo non è in grado di operare dato che solo uno dei suoi sette giudici è in servizio. Il 13 dicembre le forze di sicurezza hanno occupato la sede della Commissione elettorale e il capo dell’esercito, generale Ousman Badjie, che in precedenza aveva giurato fedeltà a Barrow, ha fatto marcia indietro e si è fatto vedere in pubblico con un distintivo raffigurante Jammeh sull’uniforme. Sempre il 13 dicembre i presidenti di Nigeria, Ghana, Liberia e Sierra Leone, tutti paesi membri, come il Gambia, dell’organismo economico regionale Ecowas che dispone di un proprio esercito, si sono recati nel paese per convincere Jammeh ad accettare l’esito del voto. Poche ore prima un alto funzionario dell’Ecowas, Marcel Alain de Souza aveva definito il comportamento del presidente vergognoso e aveva dichiarato di non escludere l’invio di truppe per ridurlo alla ragione: “lo abbiamo già fatto in altre occasioni, al momento abbiamo delle truppe in Guinea Bissau e ne abbiamo mandate in passato in Mali e quindi si tratta di una possibile soluzione”.  

Due giorni prima l’Unione Africana aveva chiesto al presidente Jammeh di favorire un passaggio dei poteri pacifico e regolare e aveva esortato forze armate e polizia a rimanere neutrali. Da parte sua l’Onu ha minacciato Jammeh di forti sanzioni e ha vivamente deplorato l’occupazione della Commissione elettorale proprio mentre una delegazione straniera di alto profilo raggiungeva il paese: un atto offensivo, irriverente sia per la popolazione gambiana sia per i capi di stato stranieri e che, inoltre, rischia di compromettere il materiale elettorale custodito nell’edificio. Ibn Chambas, il rappresentante Onu per l’Africa occidentale, anche lui in visita nella capitale gambiana, ha dichiarato: “per Jammeh è la fine, per nessun motivo al mondo potrà continuare a essere presidente”. Tuttavia il rappresentante dell’Onu ha affermato di non ritenere necessario un intervento militare, almeno per il momento. 

Barrow assicura che sarà lui il 18 gennaio del prossimo anno a giurare come presidente. Dice che il suo staff sta già preparando la cerimonia del suo insediamento. Sostiene di non temere le mosse di Jammeh ed esclude che ci sia bisogno di ricorre a truppe straniere per affermare la volontà popolare e difendere le istituzioni democratiche. Promette che il suo sarà un governo fondato sulla “verità e sulla riconciliazione” e che Jammeh non deve temere di essere incriminato, se accetta di rinunciare alla carica. “È un cittadino gambiano – ha detto – può starne certo. Se il Sudafrica si è potuto riconciliare dopo la fine del regime di apartheid non c’è motivo perché il Gambia non possa farlo”. 

La popolazione, dopo gli euforici festeggiamenti dei sostenitori di Barrow all’annuncio dei risultati,  è tranquilla, per ora non si segnalano disordini, ma l’esercito presidia le strade della capitale Banjul e delle città principali.

Si deve forse proprio all’euforia della vittoria se Fatoumata Jallow-Tambajang, una dei leader della coalizione che ha portato Barrow alla vittoria,  il 7 dicembre ha rilasciato delle dichiarazioni che a Jammeh non sono affatto piaciute. Al quotidiano Guardian la candidata ha spiegato che di sicuro l’ex presidente non potrà contare sull’immunità. Entro un anno e forse molto meno, ha detto, Yahya Jammeh sarà giudicato per i crimini commessi durante gli anni al governo: “ha i mezzi e il denaro per organizzare una rivolta dal suo palazzo di Kanilai, al confine con il Senegal. Non ci fidiamo di lui. Più tempo gli concediamo e più aumenta la possibilità che lasci il paese e poi organizzi una rivolta”. Secondo Jallow-Tambajang Jammeh avrebbe tentato ripetutamente di lasciare il paese dopo la pubblicazione dei risultati: “ma glielo abbiamo impedito, non dobbiamo lasciarcelo scappare”. 

Le parole del presidente eletto forse vogliono dunque convincere Jammeh a non scatenare una guerra civile, pensando al bene del paese, o forse mirano a rassicurarlo per poi regolare i conti con lui, con il suo partito e con la sua etnia: molto probabilmente sarebbe comunque la guerra o, di nuovo, un sistema repressivo, solo a parti invertite.