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PELLEGRINAGGIO

Fra gli ultimi cristiani rimasti in Terra Santa

I cristiani erano il 20% della popolazione della Cisgiordania, oggi sono il 2%. A Betlemme, la città in cui nacque Gesù, oggi meno di un terzo della popolazione. Visita al laboratorio Tabash, che produce oggetti sacri, un'attività superstite.

Esteri 02_01_2014
Laboratorio Tabash

Non è facile la vita dei cristiani in Terra Santa. Ormai piccola minoranza sono considerati arabi dagli ebrei e infedeli dai musulmani. Mentre la grave situazione economica continua ad incentivare il massiccio esodo di fedeli dalla culla del cristianesimo.

«Non dobbiamo mai cedere alla disperazione», ha affermato il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal durante la messa di Natale, esortando i fedeli a rimanere. «La nostra terra è santa e in quanto tale deve avere da noi una risposta di fedeltà perché la nostra permanenza è una vocazione divina, una benedizione, un privilegio», ha detto. Ma i cristiani continuano ad abbandonare queste terre: se nel 1947 costituivano il 20% della popolazione, oggi a stento raggiungono il 2%. Un’emorragia infinita che priva la comunità di una delle risorse più importanti: i giovani. Ad abbandonare la madrepatria sono infatti soprattutto ragazzi maschi che hanno conoscenze tecniche e mezzi economici per poter cercare un futuro migliore in Europa o in America. Anche per questo le ragazze sono spesso costrette a sposare uomini di un credo diverso, per poi convertirsi e dare alla luce figli di un’altra religione. All’origine dell’esodo: le costanti tensioni tra israeliani e palestinesi e l’indifferenza – se non addirittura ostilità – mostrata nei loro confronti dai fedeli musulmani ed ebrei. Tuttavia sono soprattutto ragioni economiche quelle che inducono all’emigrazione. Perché per i cristiani trovare un lavoro in questi luoghi è davvero difficile.

Le uniche possibilità d’impiego offerte loro sono nel settore turistico – sempre più in crisi a causa delle continue tensioni tra Israele ed Autorità Palestinese – e nella produzione di articoli sacri in legno di ulivo e madreperla. «Per le famiglie cristiane la realizzazione di questi rosari è divenuta allo stesso tempo un mezzo di sopravvivenza e un’espressione concreta della nostra identità cristiana», racconta Victor Tabash proprietario del negozio di souvenir della Chiesa della Natività. La bottega, aperta da suo padre nel 1937, permette di vivere a ben quarantasei famiglie cristiane. «Purtroppo però non è abbastanza – afferma – perché ci sono tanti altri fedeli che non hanno neppure da mangiare». L’arte di realizzare manufatti in madreperla o in legno di ulivo è un’antica tradizione importata dai padri francescani nel XV secolo e poi tramandata di generazione in generazione. Molti cristiani hanno trovato così una fonte di sostentamento e l’opportunità di rimanere nel proprio luogo natio. Come Jalal, un vedovo di cinquant’anni di Betlemme, che grazie all’artigianato è riuscito a mantenere i suoi tre figli Elias, Daniel e Mariana. Il fatto di produrre oggetti devozionali cristiani aiuta inoltre l’ormai piccola minoranza a rafforzare la propria identità religiosa. Anche qui i dati demografici raccontano una realtà drammatica: un tempo a Betlemme i cristiani erano infatti più del 90%, mentre oggi sono meno di un terzo dei 22mila abitanti della città in cui è nato Gesù.

Durante l’anno nel laboratorio di Tabash vengono realizzate coroncine del rosario, portacandele ed altri articoli sacri, mentre a Natale si scolpiscono numerosissimi presepi in legno. Da qualche anno i manufatti vengono anche esportati in tutto il mondo, perfino in Vaticano. Da qualche anno però la crisi del turismo ha penalizzato fortemente le vendite. «Anche questo non è stato un buon Natale per la nostra attività. Sono ormai diversi anni che la situazione dei cristiani in Cisgiordania peggiora. I nostri fratelli nella fede continuano a lasciare la Terra Santa, ma noi non la abbandoneremo. Come ha detto il patriarca Twal “non dobbiamo mai cedere alla disperazione. Da Betlemme è partito il messaggio della Salvezza ed è a Betlemme che dobbiamo guardare”».