Fontana, la Porta del Duomo e la corazzata Potemkin
La Fabbrica del Duomo di Milano ha deciso di esporre i calchi e i bozzetti che il Maestro Lucio Fontana eseguì tra il 1955 e il 1956 per la Quinta Porta della cattedrale meneghina. Al concorso non la spuntò, ma ora ci si riprova. Sarà anche un genio, ma non ci si capisce niente.
Sarà anche un genio, ma non ci si capisce niente: Fantozzi dixit. Cadono i cinquant’anni della morte di Lucio Fontana, pittore e scultore «padre dello Spazialismo». Se non sapete cos’è lo Spazialismo, pazienza. Di certo però avrete visto i famosi «tagli» longitudinali nella tela, giudicati (dai critici) capolavori e definiti (dal popolo) come Fantozzi definì La corazzata Potemkin. Ebbene, la Veneranda Fabbrica del Duomo (di Milano) ha deciso di esporre i calchi e i bozzetti che il Maestro eseguì tra il 1955 e il 1956 per la Quinta Porta della cattedrale meneghina. Era stato allora, dalla stessa, bandito un concorso e Fontana vi aveva partecipato inviando i suoi progetti. Arrivò in finale ex-aequo con lo scultore Luciano Minguzzi, che poi la spuntò definitivamente.
La commissione giudicatrice dell’epoca evidentemente tifava Fontana, tanto che più volte invitò detto concorrente a maggiormente definire in senso figurativo la sua prova. Fontana cercò di ottemperare, ma per quanti sforzi facesse la sua personalissima arte prevaleva. Fu così che, pur a malincuore, quello che tagliò il traguardo fu il progetto di Minguzzi. Ma in qualcuno, vista anche la fortuna successiva delle opere di Fontana, rimase il rammarico per l’«incomprensione». Dice l’Arciprete del Duomo che «l’artista non fu capito» (Il Giornale del 27 u.s.), così come accadde al grande Leonardo da Vinci quando propose per il Duomo una soluzione architettonica rivoluzionaria. In effetti, Leonardo non era nuovo alle sperimentazioni, tant’è che, da buon eclettico, aveva provato anche ad aprire una trattoria in cui il cibo veniva servito in forme così «artistiche» ma mandare in breve in fallimento il locale.
Quelle «anticipazioni» per cui oggi ammiriamo Leonardo erano giudicate, alla sua epoca, solo divertenti giocattoli (elicottero, paracadute, aliante, sottomarino eccetera), mentre il genio toscano era richiesto soprattutto come pittore. Forse la porta di Fontana era, del pari, davvero in anticipo sui tempi, ma sarebbero tempi molto in là nel futuro, giacché, per dirla alla Fantozzi, nella porta di Fontana non si capisce molto. Giustamente si chiede l’Arciprete: «i milanesi cosa avrebbero compreso di ciò che egli intendeva rappresentare su una porta della Cattedrale?». Il dubbio, siamo sicuri, avrebbe colto anche i milanesi di oggi, quei milanesi che, lo si ricordi, sono stati i veri committenti dell’intero Duomo.
Né si potrebbe immaginare un esperto fisso in una garitta accanto alla porta in questione, pronto a spiegare ai visitatori (anche ai passanti, giacché la porta è esterna) il significato recondito dell’opera d’arte. Ma è così per tutta l’arte moderna: a un primo sguardo resti interdetto, la apprezzi solo se qualcuno te la spiega. Così, però, c’è da chiedersi se il vero artista sia l’esecutore materiale o il critico spiegante. Infatti, un abilissimo sofista sarebbe ben capace di convincere l’uditorio che una emerita schifezza è in realtà un capolavoro dell’ingegno umano. Il risultato, la si giri come si vuole, è l’antidemocraticità di tutta l’arte moderna, comprensibile a pochi e bisognosa di interpretazione anche per costoro.
Un tempo anche l’ultimo degli ignoranti poteva mettersi di fronte a un quadro o a una scultura e comprenderli. Ai tempi di Mao venne in visita in Italia un giovane funzionario cinese che, per ovvi motivi, nulla sapeva del Vangelo. Davanti alla Pietà di Michelangelo vide subito che si trattava di una madre che piange il figlio morto, anche se non era in condizione di identificarla come la Madonna. Oggi ci vuole il libretto di istruzioni annesso, sennò si finisce come quegli inservienti che, nel fare le pulizie, buttarono nella spazzatura un certo numero di «installazioni» presenti a una mostra europea.