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1 LUGLIO

Fine di Hong Kong "per come l'abbiamo conosciuta finora"

Il 1° luglio è una data speciale per Hong Kong. Il 1° luglio 1997, infatti, l’ex colonia britannica venne riconsegnata alla Cina. E dal 1° luglio 2003 si tiene una marcia annuale per la democrazia, da quando cioè venne sconfitta la liberticida Legge per la sicurezza nazionale. Ma oggi Pechino ha imposto quella legge ponendo fine alla libertà di Hong Kong

Esteri 01_07_2020
Hong Kong

Il 1° luglio è una data speciale per Hong Kong. Il 1° luglio 1997, infatti, l’ex colonia britannica venne riconsegnata alla Cina dopo un secolo e mezzo di amministrazione del Regno Unito. Il 1° luglio 2003 si tenne invece la prima marcia per la democrazia, per celebrare la vittoria delle dimostrazioni di piazza che impedirono al governo locale di allora di applicare la Legge per la Sicurezza Nazionale, che avrebbe comportato pericolose limitazioni alla libertà dei cinesi di Hong Kong. Oggi invece, il 1° luglio 2020, sarà un giorno tragico. Con tempismo perfetto, infatti, il giorno prima (ieri, per chi legge) il Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il parlamento (a partito unico) di Pechino ha approvato all’unanimità l’applicazione della nuova Legge per la Sicurezza Nazionale. La vittoria che si festeggiava da 17 anni, insomma, adesso diventa ufficialmente una sconfitta. E per di più, sempre col pretesto delle leggi anti-assembramento, causate dall’epidemia, oggi sarà vietata ogni manifestazione pubblica.

La Legge per la Sicurezza Nazionale è prevista dall’articolo 23 della Basic Law, la costituzione di Hong Kong, approvata dal VII Congresso del Popolo cinese nel 1990. Una legge di questo tipo vieta, sostanzialmente, ogni attività politica contraria al regime di Pechino: “[…] tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro il Governo centrale del Popolo, furto dei segreti di Stato, divieto di organi e organizzazioni straniere di condurre attività politica nella Regione”. Tuttavia, lo stesso articolo 23 specifica che sia il governo autonomo hongkonghese a doversi dotare di questa legge speciale (“on its own”). Invece, la legge è stata votata a gran maggioranza alla sessione dell’Assemblea Nazionale del Popolo, a Pechino, il 28 maggio scorso ed entrerà in vigore da oggi, senza passare da alcuna consultazione nelle istituzioni locali. La governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, fedele a Pechino, saluta con favore la sua introduzione, affermando che “colmi un vuoto legislativo”, ma le opposizioni, soprattutto i movimenti democratici, si preparano a dar battaglia.

La decisione unilaterale di Pechino è giunta dopo un anno di disordini, interrotti solo dall’emergenza Covid e dalle leggi temporanee contro gli assembramenti. Dal giugno 2019, infatti, ogni settimana, masse immense di hongkonghesi scendono in piazza contro l’ingerenza di Pechino nelle loro vite. Proprio all’indomani del rapimento e della detenzione in Cina di alcuni autori ed editori, colpevoli di aver stampato e venduto libri anti-comunisti, Carrie Lam stava facendo passare una legge sull’estradizione che (nella peggiore delle ipotesi, secondo l’opposizione democratica) avrebbe permesso alla magistratura cinese di mettere le mani su oppositori e dissidenti direttamente in territorio di Hong Kong.

I disordini dell’anno scorso seguivano di pochi anni le proteste del 2013 (Occupy Central) e del 2014 (“rivoluzione degli ombrelli”) scoppiate per la mancata promessa di introduzione del suffragio universale per l’elezione del Consiglio Legislativo (il parlamento locale) di Hong Kong. Nella Basic Law, infatti, è prevista una transizione di sistema, da suffragio limitato (solo la metà dei 60 membri sono eletti direttamente dal popolo) a suffragio universale. Lo stesso regime comunista cinese aveva promesso la transizione verso elezioni libere, per il 2017, ma poi aveva deluso tutti affermando che solo Pechino avrebbe potuto scegliere i candidati.

La storia dell’ultimo ventennio, dunque, si può riassumere come una rapida erosione dell’autonomia di Hong Kong. Quando la città era stata restituita alla Cina, il 1° luglio 1997, i patti erano chiari: la sovranità sarebbe appartenuta alla Cina, ma la città avrebbe preservato, per 50 anni, le sue leggi britanniche, comprese quelle sulla proprietà privata, la libertà di religione, di espressione e di assemblea. Un concetto riassunto nella formula “un Paese, due sistemi”. La giustizia, per espressa disposizione della Basic Law (Sezione 4) è indipendente e giudica sulla base delle leggi e del sistema giurisprudenziale ereditato dal diritto britannico sul territorio di Hong Kong. Ma nella stessa Basic Law ci sono diversi “cavalli di Troia”. Prima di tutto, il fatto che l’intera “mini-costituzione” locale è considerata in subordine rispetto alla Costituzione della Repubblica Popolare Cinese. Secondo l’articolo 18 della Basic Law, poi, in caso di “stato di guerra” dovuto a “disordini scoppiati all’interno del territorio che minaccino l’unità nazionale o la sicurezza” e non gestibili dalle autorità locali, Pechino si ritiene in diritto di applicare la sua legge nazionale anche all’interno della Regione autonoma. Pechino non ha dichiarato formalmente alcuno “stato di guerra”, ma la Cina, evidentemente, ritiene comunque di avere tutti i diritti di imporre il suo volere e respinge al mittente tutte le critiche internazionali.

Critiche che non sono mancate: in un raro momento di allineamento, Ue, Nato, Regno Unito e Stati Uniti hanno fortemente contestato la mossa cinese. All’interno dell’enclave, il movimento di opposizione Demosisto ha annunciato la fine di ogni sua manifestazione pubblica e il passaggio a strategie più “flessibili”. Il suo esponente più celebre, Joshua Wong, ha avvertito che questo 1 luglio segna “la fine di Hong Kong per come il mondo l’ha sempre conosciuto”. Sulla base della nuova legge, lui stesso rischia di essere arrestato e condannato a gravi pene carcerarie. Anche l’imprenditore ed editore cattolico Jimmy Lai ritiene che oggi, nella città, sia anche ufficialmente finito il governo della legge “e senza governo della legge, le persone che fanno impresa qui non saranno più protette dal diritto, ma solo dai funzionari che hanno il potere su di essi. Hong Kong diverrà come la Cina e sarà anch’essa in preda alla corruzione”. Le ripercussioni economiche potrebbero essere molto gravi, perché “verrebbe meno la fiducia reciproca su cui si fonda il nostro mercato finanziario” che attualmente è uno dei più importanti del mondo.

Oltre alla libertà economica rischia di essere completamente soppressa anche la libertà di religione. Hong Kong è, fino ad oggi, l’unico angolo di Cina in cui si può liberamente pregare e celebrare la Messa. Fino ad oggi. Da oggi, invece, tutte le religioni che hanno contatti con il mondo esterno, inclusa la Chiesa cattolica, possono teoricamente cadere sotto la scure della nuova legge. Sulla base del divieto di attività sul territorio di organizzazioni straniere, la Cina potrebbe estendere anche all'enclave la sua politica di "sinizzazione", cioè di creazione di religioni "con caratteristiche cinesi" plasmate a immagine e somiglianza del Partito Comunista Cinese, in tutti i loro aspetti, dottrina inclusa.