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Fede e Alex, cosa resta dopo la sconfitta

C’è un filo rosso alle Olimpiadi di Rio che lega le sorti di Federica Pellegrini e Alex Schwazer. Non quello teso all’arrivo, bensì quello della sconfitta. Un filo che lega questi due giovani atleti e che porta a meditare su quel dolore denunciato da entrambi. É il dolore di tutti quando falliamo nonostante ci abbiamo messo il cuore...

Editoriali 12_08_2016
Federica Pellegrini

C’è un altro tipo di paralimpiadi oltre a quelle disputate dalle persone disabili. Sono quelle in cui, nolenti, si sono qualificati ai primi posti e pari merito Alex Schwazer e Federica Pellegrini. La specialità è la medesima: arrampicata a mani nude mentre dall’alto piovono pietre. Due storie differenti, ma per molti aspetti anche simili.

Il marciatore altoatesino è stato squalificato per otto anni dal Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna che ha accolto il ricorso della Federazione internazionale di atletica. Per la seconda volta nella sua carriera Schwazwer è stato trovato positivo al doping. La Pellegrini invece è arrivata quarta nei 200 stile libero, la gara a lei più congeniale, e dunque si è giocata il podio.

Su Instagram, diario social di molti giovani e non, la Fede nazionale si sfoga così: «Eh già non è arrivata! Fa così male questo momento che non potrei descriverlo! Non è un dolore di uno che accetta quello che è successo, anzi è un dolore di una che sa cos'ha fatto quest'anno... la determinazione che ci ha messo... il mazzo che si è fatta.. I pianti per i dolori e per la fatica...  lo svegliarsi la mattina e dopo 7 ore di sonno sentirsi come se ti avessero appena preso a pugni quanta è ancora la stanchezza...si ho 28 anni....bla bla bla....ma ci credevo...ho combattuto con tutto quello che avevo e purtroppo ho perso... certo è che un male così forte poche volte l'ho sentito....colpa di nessuno anzi....». E nel mezzo una riflessione sul futuro che diventa subito titolo di tutti i tabloid: «forse è tempo di cambiare vita ...forse no....”. Infine così chiude: “oggi qualcuno ci ha presentato un conto troppo salato da accettare...». 

Alex invece pare che abbia avuto solo la forza di sillabare: «Sono distrutto». Doveva partecipare alla conferenza stampa, ma ha rinunciato. Si è presentato solo il suo allenatore, Sandro Donati: «L'ho informato io Alex, è rimasto in silenzio per venti minuti, senza parlare». 

Non ci importa qui mettere sul bilancino le colpe e i meriti di questi due atleti, se la Pellegrini a 28 anni è ormai “bollita”, se ha perso più di testa che di gambe, se è vero che l’esame a cui è stato sottoposto Schwazer non ha ricevuto conferma da altri test, se il suo anonimato è stato rispettato, se c’è stata manomissione nelle provette. Nulla di tutto questo. Ciò che attira la nostra attenzione è un filo rosso, non quello teso all’arrivo, bensì quello della sconfitta. Un filo che lega questi due giovani atleti e che porta a meditare su quel dolore denunciato da entrambi. É il dolore di tutti quando falliamo nonostante ci abbiamo messo il cuore. È un dolore inappellabile perché quella partita è persa per sempre. Un’amarezza che non concede sconti, che è senza pietà verso tutti quei sacrifici che, nel momento della caduta, ci pare che non siano valsi a nulla.

Schwazer, il quale chiedeva infine solo di essere messo nelle condizioni di rispettare il principio decoubertiano “l’importante è partecipare”, potrà virtualmente tornare a marciare a 39 anni. La Pellegrini pensa di appendere al chiodo la cuffia. Carriere finite? Per la nuotatrice è presto per dirlo. Invece se l’altoatesino Alex non si riciclerà in un’altra disciplina le possibilità sono zero. Ma forse un altro tipo di Olimpiadi – le paraolimpiadi della scalata a mani nude a cui accennavo prima – è appena iniziato per Alex e Federica. Sono le Olimpiadi della fortezza. Il Catechismo della Chiesa cattolica così definisce la fortezza: «La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della fortezza rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni» (1808).

É la virtù dei campioni. Quando questi salgono sul podio a favore di microfoni e telecamere con un sorriso a 32 denti spiegano a noi, che al massimo andiamo a giocare a calcetto con gli amici al lunedì sera, che certi risultati si ottengono con la perseveranza, il sacrificio, la dedizione. Poi arriva sempre una frase che più o meno suona così: «Questo sport mi ha insegnato che ogni volta che cadi ti devi rialzare. Non devi mollare mai. Non ti devi mai arrendere». Mai dunque sventolare bandiera bianca. Ecco per Alex e Fede è venuto il momento buono per far vedere che non molleranno e che opteranno per la seconda ipotesi meditata da Amleto: «se sia più nobile d'animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell'iniqua fortuna, o prender l'armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli». 

Ma c’è una difficoltà in più da superare. Questa tenacia sarà da dimostrare non sull’asfalto o in vasca, bensì in quella quotidianità dove un quarto posto è un lusso che nessuno può permettersi, una quotidianità priva delle luci della ribalta dove anche noi non olimpionici dobbiamo giorno dopo giorno lottare per non arrenderci di fronte ai rovesci di quel piccolo o grande cielo che è la nostra vita. Il “mazzo così” che la Pellegrini si è fatta alzandosi alle 7 di mattina per tanti anni, forse è nulla rispetto al “mazzo così” che si fa il tramviere e il panettiere che si alzano anche prima da decenni. E lo fanno per sbarcare il lunario. Senza medaglie, podi e fama. Se non il riconoscimento dei clienti e dei propri cari. 

Le lacrime della Pellegrini e di Schwazer sono amare tanto quanto quelle di chi è stato licenziato ingiustamente, di chi ha mancato una promozione, di chi ha fallito un concorso. Per tacer di altre lacrime ben più cocenti e di «conti salati» – per prendere a prestito le parole della nuotatrice veneta – su cui tutti, nessuno escluso, hanno imparato la matematica dei propri fallimenti. Non è moralismo, ma senso per le proporzioni che aiuta a ridimensionare drammi esistenzial-massmediatici.

Ora dunque un altro tipo di maratona e di gara in vasca, molto più lunghe e snervanti, attendono i due atleti, un altro tipo di competizione dove è impossibile doparsi e dove la gente normale è suo malgrado olimpionica un giorno sì e l’altro pure: rimettersi in piedi dopo essere caduti. Uno sport - tra l’altro - assai evangelico e in cui per fortuna il gradino più alto del podio celeste può ospitare, volendo, tutta l’umanità.