Fake news e Ferrari, anche la stampa ha le sue colpe
Quanto accaduto domenica scorsa ha destabilizzato per meno di un quarto d’ora il mondo della Formula 1, ma è comunque indicativo della facilità con la quale, anche attraverso canali ufficiali, è possibile “avvelenare i pozzi” della verità e contaminare la descrizione dei fatti. E in questo una responsabilità ce l'hanno anche i giornalisti.
Ogni volta che una fake news di grande impatto per il pubblico si diffonde in modo virale si torna a parlare di sicurezza della Rete e di vigilanza sui contenuti diffusi nel web. Le notizie false e messe in giro ad arte per condizionare la politica e la vita delle istituzioni e dei cittadini ci sono sempre state e non sono certo nate con internet. Tuttavia la dimensione on-line contribuisce ad amplificarne la portata e ad accrescerne la diffusione.
Non sarebbe opportuno immaginare “Ministeri della verità” che decidano quali notizie lasciare nei circuiti informativi e quali rimuovere, perché arriveremmo al pensiero unico e alla dittatura sulle opinioni e i punti di vista, ma sarebbe ugualmente sbagliato lasciare campo libero ai mistificatori di professione e a tutte quelle organizzazioni che vivono di fake news e lucrano sulla loro propagazione.
Quanto accaduto domenica scorsa ha destabilizzato per meno di un quarto d’ora il mondo della Formula 1, ma è comunque indicativo della facilità con la quale, anche attraverso canali ufficiali, è possibile “avvelenare i pozzi” della verità e contaminare la descrizione dei fatti, generando equivoci e alimentando, come in questo caso, illusioni e fuorvianti aspettative.
Domenica, poco dopo la vittoria di Verstappen nel Gran premio automobilistico d’Austria,è circolato un finto documento della Fia (Federazione internazionale dell’automobile) diffuso dalle tv che parlava di una penalizzazione di 5’’ e della conseguente vittoria per il ferrarista Leclerc. Un falso smentito solo dopo 10 minuti. Si è scoperto che quel documento (un pdf con tanto di logo e “numerini” di matricola) è stato fatto circolare in una chat di WhatsApp creata da Matteo Bonciani, ex capo della comunicazione della Federazione (di cui oggi è consulente) e riservata ai giornalisti.
Dunque colpa di Bonciani o dei giornalisti? Bonciani certamente è responsabile di aver messo in giro una fake news, sia pure in buona fede, ma i giornalisti non avrebbero dovuto abboccare e si sarebbero dovuti preoccupare di compiere tutte le verifiche necessarie, raccomandate peraltro dalla loro deontologia professionale.
In questo caso la fonte era autorevole, ma comunque non ufficiale, e dunque i cronisti chiamati ad assicurare al grande pubblico il diritto all’informazione avrebbero dovuto esperire tutti i tentativi necessari per appurare la verità dei fatti.
Al giornalista è richiesto un supplemento di attenzione e di vigilanza. Egli è chiamato a un controllo incrociato delle fonti. Verificare la notizia prima di diffonderla è un suo preciso dovere. Esistono fiumi di sentenze che condannano per diffamazione giornalisti che riportano integralmente lanci di agenzia o notizie diffuse da loro colleghi. Già negli anni novanta la Cassazione ha stabilito che le fonti giornalistiche non possono reciprocamente legittimarsi. Se sbaglia una e, a cascata, sbagliano altre, sono tutte ugualmente corresponsabili. Anche nel caso “austriaco”, quindi, non è pensabile che i giornalisti colpevoli di aver diffuso quella notizia falsa siano esonerati da responsabilità. La notizia arrivava da una chat riservata ai soli addetti ai lavori, ma tutto il mondo era in attesa del verdetto. La buona fede di Bonciani è indubbia, ma l’errore è anche di chi si è fatto megafono del suo errore.
Va detto che l’applicazione delle norme sulla diffamazione, in particolare l’art.595 del codice penale, ai social, è sempre più puntuale. La diffusione di notizie false su un profilo social comporta la condanna alle pene previste per la lesione dell’onore e della reputazione. Manca, in questo caso, il requisito della verità, e si produce una disinformazione che può anche diventare virale.
Ma al di là delle colpe dei singoli autori delle fake news va considerata anche la responsabilità delle piattaforme. Esiste il codice di auto-regolamentazione che i colossi del web come Facebook, Twitter, Google hanno firmato l’anno scorso a Bruxelles. Un codice che impone loro di monitorare la Rete e di rimuovere notizie false su segnalazione di utenti o persone coinvolte. E sta funzionando. Queste aziende hanno capito che se la gente inizia a diffidare della loro credibilità perdono traffico. E quindi anche soldi. Non è escluso che nella legislatura europea che ha preso avvio dalle elezioni del 26 maggio scorso possa essere emanata una vera e propria normativa vincolante in materia di fake news, un regolamento o una direttiva in grado di condizionare ancora di più la battaglia contro le notizie false nei singoli ordinamenti giuridici nazionali.
Se i giornalisti devono astenersi dal divulgare notizie non verificate e non riscontrate adeguatamente, anche gli utenti dovrebbero affidarsi a testate o giornali on line con un brand forte e riconosciuto, riconducibili al filone dei contenitori professionali di qualità. E poi è buona norma consultare più fonti e non credere ai profili social non ufficiali.
Tutto questo porta a ribadire l’importanza di rendere riconoscibile in Rete il lavoro di professionisti dell’informazione che non si fermano alla prima imbeccata ma cercano riscontri e pubblicano solo dopo aver compiuto innumerevoli verifiche sull’attendibilità delle loro fonti. La qualità dell’informazione in Rete è un ingrediente essenziale della democrazia.