Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi

DIRITTO

«Esiste una sola famiglia», è rozza anche la Consulta?

D'Alema lapidato per le affermazioni sul matrimonio omosessuale aveva chiesto scusa per la sua rozzezza. Ma la Costituzione è molto chiara.

Attualità 22_09_2011
giudici

Oramai siamo tutti al corrente del polverone sollevato dalle recenti dichiarazioni di D’Alema sul matrimonio omosessuale, oltre che dalle sue successive immediate scuse per la presunta “rozzezza” della sua interpretazione dell’art. 29 della Costituzione.

Sorvoliamo un attimo sul comportamento ambivalente dell’uomo politico e sulla impressionante “capacità di fuoco” delle lobby omosessuali (…e poi ci vengono a criticare per l’Inquisizione di qualche secolo orsono!), concentriamoci piuttosto sulla presunta “rozzezza” dell’interpretazione secondo cui l’art. 29 della Costituzione impedirebbe il matrimonio tra omosessuali.

 

Dobbiamo passare davvero per rozzi se facciamo una simile affermazione?

Che ne dite se lasciamo la parola a chi, per competenza professionale e funzione istituzionale, davvero rozzo non può essere definito nelle materie giuridiche: la Corte Costituzionale.

Farà piacere sapere che il 15 aprile 2010 è stato pubblicato il testo integrale della sentenza n. 138 della Corte Costituzionale, con la quale sono stati “respinti” i ricorsi proposti da due coppie di omosessuali.
Vogliamo esaminarla insieme?

 

Come funzionano le decisioni della Corte Costituzionale.

Prima di tutto occorre spiegare brevemente come funziona un giudizio di legittimità costituzionale.
Uno o più cittadini si rivolgono ad un giudice per far valere quello che ritengono un proprio diritto. Questo giudice si trova a dover fornire una risposta positiva o negativa che richiede l’applicazione di una norma giuridica: questa norma, però, potrebbe essere ritenuta dallo stesso giudice in contrasto con la Costituzione.

In questo caso, dunque, il giudice rimette la “questione di legittimità costituzionale” davanti alla Corte Costituzionale, la quale deciderà in tre modi:

a)      inammissibilità se la questione non può essere esaminata per motivi di procedura o semplicemente perché la Corte non si può pronunciare per come richiesto dal giudice rimettente;

b)      manifesta infondatezza, se la questione non merita neppure di essere approfondita in quanto la norma denunciata dal giudice rimettente è con tutta evidenza rispettosa della Costituzione;

c)      fondatezza o infondatezza, se la questione è tale da dover essere esaminata e, quindi, accolta o meno alla luce delle argomentazioni fornite dalla Corte.

Nel caso di fondatezza, la norma viene “espulsa” dall’ordinamento; nel caso di infondatezza, rimane intatta così come era.

Sorvoliamo su alcune ipotesi, diciamo così, “intermedie”: non ci interessano ora.


Il caso

Che è successo allora nel caso deciso dalla Corte?

Una coppia di omosessuali ha chiesto al funzionario comunale di procedere con le pubblicazioni di matrimonio a loro favore, ma questi si è rifiutato poiché la richiesta della coppia si poneva in contrasto con la legge italiana, secondo la quale il matrimonio è solo tra uomo e donna.

La coppia allora ha fatto ricorso al Tribunale di Venezia, opponendosi al rifiuto di pubblicazione in quanto ritenuto in contrasto con la Costituzione. Il Tribunale di Venezia, dimostrando di condividere le perplessità della coppia ricorrente, ha “rimesso” alla Corte Costituzionale la questione di legittimità di tutta una serie di articoli del Codice Civile “nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso”.

Identico fatto è accaduto anche ad un’altra coppia omosessuale, questa volta rivoltasi al Tribunale di Trento (che ha dato loro torto) e poi alla Corte di Appello di Trento. Quest’ultima ha anche essa rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità degli articoli del Codice Civile già “denunciati” dal Tribunale di Venezia, con argomentazioni del tutto analoghe.


Le argomentazioni a favore del matrimonio omosessuale.

Il ragionamento fatto dalle coppie omosessuali e poi ripreso dai Giudici rimettenti si basa fondamentalmente su quattro punti.


Primo: l’art. 2 della Costituzione.

Questo articolo riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo singolarmente e nelle “formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”: prima tra tutte la famiglia. Dunque, il diritto di formare una famiglia e, quindi, di sposarsi, “configura un diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale”, ossia da numerose convenzioni internazionali, in primis CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) e Trattato di Nizza.

L’unico diritto fondamentale che potrebbe, in astratto, entrare in conflitto con il matrimonio tra omosessuali sarebbe solo quello dei figli di “crescere in un ambiente familiare idoneo, diritto corrispondente anche ad un interesse sociale”: ma questo è un diritto distinto dal matrimonio omosessuale e il problema può essere superato semplicemente impedendo l’adozione dei minori da parte di sposi omosessuali, come altri Ordinamenti hanno fatto.


Secondo: l’art. 3 della Costituzione.

Lo conosciamo tutti: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Se, dunque, il matrimonio è un diritto fondamentale e momento essenziale di espressione della dignità umana, esso deve essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso (uomo-donna) o dalle condizioni personali (come l’orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello Stato di prevedere il matrimonio anche per le coppie omosessuali.
C’è in particolare una norma nel diritto italiano che avallerebbe questa tesi: quella che consente il matrimonio ai transessuali (legge 164/1982), cioè agli omosessuali che abbiano scelto di subire un’operazione chirurgica per cambiare il sesso biologico. Questa legge sarebbe la dimostrazione che è giusto valorizzare “l’orientamento psicosessuale della persona”, piuttosto che il sesso biologico. Peraltro, sarebbe una discriminazione consentire il matrimonio ad un omosessuale che ha cambiato sesso biologico e, allo stesso tempo, negare il matrimonio ad un omosessuale che, a differenza del trans, semplicemente non ha inteso cambiare sesso biologico.
Interessante notare come il Tribunale di Venezia dica apertamente che “per i diritti degli omosessuali, così come per quelli dei transessuali, ci sono fortissime spinte, provenienti dal contesto europeo e sopranazionale, a superare le discriminazioni di ogni tipo, compresa quella che impedisce di formalizzare le unioni affettive”.


Terzo: l’art. 29 della Costituzione.

L’art. 29 afferma, sì, che la Repubblica riconosce i diritti della “famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, ma, da un lato, il riferimento alla “natura” riguarda solo la preesistenza e l’autonomia della famiglia rispetto allo Stato (per intenderci, la famiglia esiste a prescindere dallo Stato e questo non può non riconoscerla), dall’altro non si parla esplicitamente di distinzione tra sessi.
Le norme costituzionali, inoltre, nella loro interpretazione e applicazione sono aperte alle trasformazioni sociali ed è innegabile che negli ultimi anni sono nati modelli diversi da quello tradizionale: basta pensare alla riforma del diritto di famiglia (1975) e ai progetti di legge sui DICO … o come dir si voglia. Inoltre, l’aspetto della potenzialità procreativa (che, ovviamente, le coppie eterosessuali hanno e quelle omosessuali no) non è fondamentale nel matrimonio, altrimenti si dovrebbe impedire il matrimonio alle coppie sterili.

Il matrimonio, in sostanza, “sarebbe, senza dubbio, l’unione di due esistenze”: gli omosessuali hanno il diritto di vivere pienamente la loro condizione anche scegliendo il proprio partner della vita e ottenendo il giusto riconoscimento giuridico come accade per i loro “fratelli” eterosessuali.


Quarto: l’art. 117, primo comma, della Costituzione.

Questo è un aspetto non nuovo, ma di certo non comune e non noto nel dibattito quotidiano su questo problema. Tale norma costituzionale impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. A questo riguardo rilevano le tante dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo, ma soprattutto la CEDU (già vista sopra) e la Carta di Nizza che – così ritengono i “ricorrenti” – prevedono una serie di riconoscimenti in favore del matrimonio tra omosessuali. La prima contempla il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8), diritto al matrimonio (art. 12), divieto di discriminazione (art. 14), la seconda ribadisce simili principi.

In particolare, c’è stata una sentenza della Corte di Strasburgo (l’avete già sentita vero … i crocifissi nelle scuole vi dicono niente?) che ha dichiarato contrario alla CEDU il divieto di matrimonio, presente in una norma del Regno Unito, tra un transessuale ed una persona del suo stesso sesso originario.

Senza considerare, poi, le numerosissime dichiarazioni e raccomandazioni delle Istituzioni Europee che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio tra omosessuali. Alcuni Stati come Olanda, Belgio e Spagna, peraltro, hanno proprio preceduto in tal senso.

La posizione della Corte Costituzionale.

Queste le argomentazioni, in estrema sintesi, fatte valere davanti alla Corte Costituzionale.

Dunque, come ha deciso quest’ultima? Nel seguente modo.

 

1.
Ha dichiarato
 inammissibile la questione con riferimento all’art. 2 della Costituzione, “perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata”.

Dietro l’arido linguaggio tecnico si nasconde un concetto molto semplice: se davvero l’art. 2 Cost. riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo nelle “formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, questo significa che la coppia omosessuale, quale formazione sociale, può ben essere tutelata senza bisogno di ricorrere all’istituto del matrimonio.

È sin troppo ovvio, infatti, che deve essere escluso che l’aspirazione al riconoscimento della condizione di “coppia” “possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”: pensiamo ai Di.Co. o alle altre denominazioni comunque usate per indicare i progetti di legge a tutela della coppia omosessuale.

Con riguardo a tale parametro – si badi bene, con riguardo solo allo specifico parametro dell’art. 2 Cost. – la Corte ha riconosciuto che “spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette”.
A questo e solo a questo si potevano riferire i primi commentatori quando parlavano del rimando operato dalla Corte al Legislatore: ma per disciplinare le coppie “di fatto”, non certo per equiparare le coppie omosessuali a quelle eterosessuali in materia di matrimonio.

Quest’ultima operazione è, nel nostro sistema costituzionale, impossibile: lo si vedrà bene più avanti.

2.
Ha dichiarato
 infondata la questione con riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione.
Qui la Corte ha riconosciuto che il termine “società naturale” fa riferimento solo al fatto che la famiglia contemplata dalla norma ha dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo deve riconoscere. Però ha precisato che, seppure è vero che le norme costituzionali sono “duttili”, cioè si adattano all’evolversi della società, è altrettanto vero che questa opera di adattamento “non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”.

La domanda è: quali fenomeni e quali problematiche furono considerati quando la costituzione fu emanata? Insomma, a quale modello di famiglia i costituenti volevano fare riferimento quando parlavano di “società naturale fondata sul matrimonio”?


La Corte ha così risposto: come risulta dai lavori preparatori, “la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché
 [attenzione eh!] la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta”. L’art. 29 della Costituzione, in buona sostanza, è stato formulato con preciso riferimento al matrimonio così come era previsto dalla legislazione allora vigente, cioè come unione tra uomo e donna. L’opzione matrimonio tra omosessuali, che pure era presente nella società, venne chiaramente esclusa.
Così come il secondo comma, che fa riferimento alla “uguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, risulta chiaramente essere stato pensato con riferimento alla sola condizione della donna.
Nessuna violazione del principio di uguaglianza, quindi, “in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”: diritti uguali a condizioni uguali, diritti diseguali a condizioni diseguali, questo è il vero principio di eguaglianza (la Corte da sempre lo chiama “principio di ragionevolezza”).


Insomma – qui il cuore della pronuncia – “in questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”.


Nessuna rilevanza hanno, poi, i riferimenti alla legge che consente il matrimonio ai transessuali: anzi, tale riferimento costituisce un ulteriore argomento a favore del carattere eterosessuale del matrimonio. È ovvio: se è consentito il matrimonio solo a quegli omosessuali che hanno cambiato sesso biologico, ciò costituisce prova incontestabile che è proprio l’elemento biologico ad essere predominante nell’istituto del matrimonio.


3.
Invece
 inammissibile è stata ritenuta la questione in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione.
Da un lato, la sentenza della Corte di Strasburgo cui hanno fatto riferimento i giudici rimettenti non è rilevante, poiché contemplava un caso (divieto di matrimonio tra un transessuale, prima donna e poi uomo, con un altro uomo) che già la legge italiana disciplina in senso positivo e, comunque, non riguarda il problema del matrimonio tra persone dello stesso sesso biologico.

Quanto alle disposizioni delle Convenzioni internazionali citate dai giudici rimettenti, queste disposizioni esprimono principi del tutto generali e “non vietano e non impongono mai la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso”.
L’art. 12 CEDU, ad esempio, dice solo che “Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto”. L’art. 9 CEDU dice che “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. In entrambi i casi si può vedere come, da un lato, non vi è un riferimento alla condizione omosessuale, dall’altro, vi è sempre un rimando alle legislazioni nazionali, mai un’affermazione di un diritto assoluto.

Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento”: cioè, le convenzioni internazionali lasciano liberi gli Stati di meglio disciplinare tali diritti. E gli Stati europei, infatti, su tale argomento hanno assunto posizioni assai diverse, che vanno dall’equiparazione delle coppie omosessuali al matrimonio civile, al riconoscimento di alcuni diritti in capo alle coppie omosessuali.


Due considerazioni conclusive.


Primo. L’aver dichiarato “infondate” le questioni riferibili all’art. 3 e 29 della Costituzione, affermando esplicitamente che il matrimonio previsto dalla nostra costituzione è solo quello tra uomo e donna, e che le pur doverose interpretazioni adeguatrici della norma alle modificazioni sociali non possono spingersi sino a stravolgere il “nucleo” delle norme, significa che in Italia è precluso al Parlamento emanare una legge che preveda la possibilità di matrimonio alle coppie omosessuali.

Secondo. Forse molti non sanno che la Corte Costituzionale ha più volte detto che, proprio a causa dell’art. 117 della Costituzione, i principi espressi dalla CEDU devono essere rispettati dalle leggi italiane e persino le sentenze della Corte di Strasburgo (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) devono essere recepite dal Parlamento, pena la dichiarazione di incostituzionalità delle leggi per contrasto con l’art. 117. Questo lo devono sapere coloro che affermano che le sentenze della Corte di Strasburgo – un esempio a caso, quella sui crocifissi nelle scuole – non siano rilevanti per l’Italia. Altroché se lo sono!

Però – e qui uno spiraglio di luce – la stessa Corte Costituzionale ha sempre affermato che i principi della CEDU (e quindi anche le sentenze della Corte Europea sui diritti dell’uomo) non possono mai porsi in contrasto con altri principi costituzionali: in questo caso, con il concetto della famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” necessariamente tra un uomo e una donna.

Dunque, possiamo ben affermare – senza paura di smentite – che per la nostra Costituzione la famiglia è solo quella naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Lo ha ribadito più volte la Corte Costituzionale (ricordate, è la sentenza n. 138 del 2010)

Caro D’Alema, puoi tranquillamente smentire la smentita: la figura del “rozzo” lasciamola fare agli altri!