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Autonomia e premierato, le spine nel fianco del centrodestra

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Le divergenze su autonomia e premierato sono la punta dell’iceberg di una competizione sempre più scoperta tra le diverse forze politiche del centrodestra, dove ogni partito gioca una partita propria, mirando più alla sopravvivenza.

Politica 10_11_2025

Nel centrodestra si moltiplicano i segnali di tensione e le crepe si fanno ogni giorno più visibili, soprattutto sui due fronti politici che più stanno segnando il dibattito interno alla coalizione: l’autonomia differenziata e la riforma del premierato. Due dossier cruciali, che in teoria dovrebbero consolidare l’identità di governo del centrodestra, ma che nella pratica stanno diventando terreno di scontro tra le diverse anime della maggioranza.

L’autonomia è da sempre il cavallo di battaglia della Lega, il progetto simbolo con cui il Carroccio cerca di riaffermare il suo radicamento nel Nord e di mantenere il legame con quel mondo produttivo lombardo e veneto che pretende più poteri e meno vincoli dallo Stato centrale. Tuttavia, proprio questa bandiera rischia di trasformarsi in un boomerang politico: se la riforma dovesse andare in porto e portare risultati concreti, sarebbe inevitabile che la Lega ne traesse beneficio elettorale, rafforzandosi nei suoi territori storici. Ed è proprio questo lo scenario che Fratelli d’Italia e Forza Italia vorrebbero evitare.

Secondo indiscrezioni sempre più insistenti, tra Giorgia Meloni e Antonio Tajani esisterebbe un tacito accordo per rallentare o addirittura neutralizzare l’iter dell’autonomia, spostando l’attenzione e le risorse sulle regioni del Sud. La leva sarebbe quella delle Zes, le Zone economiche speciali, che puntano a incentivare investimenti e sviluppo nelle aree meridionali, un campo in cui il governo può rivendicare risultati immediati e politicamente spendibili. Così facendo, Meloni e Tajani mirerebbero a consolidare il consenso nel Mezzogiorno, terreno storicamente meno favorevole alla Lega, e al tempo stesso a drenare voti proprio da quel bacino settentrionale che negli anni scorsi aveva rappresentato la forza propulsiva del Carroccio.

In questo schema si inserisce un gioco politico sottile ma spietato: da un lato la Lega accusa implicitamente gli alleati di sabotare una riforma già approvata in via parlamentare e che attende solo di essere tradotta in misure concrete; dall’altro, Fratelli d’Italia e Forza Italia cercano di presentarsi come forze di equilibrio, capaci di difendere l’unità nazionale e di scongiurare una frattura territoriale che potrebbe alimentare tensioni sociali e politiche.

Ma se sull’autonomia le divergenze sono ormai palesi, anche la partita del premierato rischia di diventare un detonatore di nuove divisioni. La riforma costituzionale che punta a introdurre l’elezione diretta del presidente del Consiglio è il progetto personale di Giorgia Meloni, il marchio politico con cui la leader di Fratelli d’Italia vuole legare il proprio nome a una trasformazione storica delle istituzioni italiane. Tuttavia, all’interno del centrodestra cresce la preoccupazione che proprio quella riforma finisca per spostare ulteriormente gli equilibri elettorali a favore di Fratelli d’Italia.

Con il nome di Meloni stampato sulla scheda, in un eventuale voto diretto, sarebbe difficile per la Lega e per Forza Italia reggere la concorrenza: la premier ha un consenso personale molto più alto dei leader alleati e un tale sistema elettorale rischierebbe di svuotare gli altri partiti di centrodestra, trasformando la coalizione in una forza monolitica guidata da un unico partito dominante. Per questo, dietro le quinte, si moltiplicano i tentativi di frenare la riforma o quantomeno di modificarne l’impianto, magari introducendo contrappesi che ne riducano l’impatto elettorale.

La stessa Meloni, consapevole del rischio di spaccature, sta cercando di tenere insieme le diverse sensibilità, ma il malumore è palpabile e comincia a produrre effetti concreti anche nei territori. Un segnale significativo è arrivato dalla Lombardia, dove la sottosegretaria Federica Picchi, espressione di Fratelli d’Italia e considerata molto vicina ad Arianna Meloni, è stata sfiduciata da diciannove consiglieri regionali del centrodestra. Un gesto che va oltre la vicenda personale e che fotografa la difficoltà di convivenza tra le componenti locali della coalizione. In Lombardia, regione simbolo del potere leghista, la crescita vertiginosa di Fratelli d’Italia alle ultime elezioni ha ridisegnato i rapporti di forza, ma ha anche generato frizioni interne, diffidenze e rivalità. L’ascesa del partito di Meloni, che si è imposto come prima forza del centrodestra anche in territori tradizionalmente leghisti, ha lasciato ferite non rimarginate. La sfiducia alla Picchi, in questo senso, non è solo un atto amministrativo, ma un segnale politico che rivela il malessere sotterraneo tra gli alleati.

Tutto questo alimenta un interrogativo che aleggia da mesi: quello che sta vivendo il centrodestra è una normale crisi di crescita, fisiologica in una coalizione dove un partito ha triplicato i propri consensi in pochi anni, oppure è il preludio a un’implosione traumatizzante? Le prospettive in vista delle elezioni politiche del 2027 sono ancora incerte.

Da un lato, Meloni resta la figura più forte e popolare della coalizione, capace di catalizzare consenso e di mantenere un’immagine di stabilità agli occhi dell’elettorato; dall’altro, però, l’erosione interna e la mancanza di un progetto realmente condiviso rischiano di logorare il patto di governo. Le divergenze su autonomia e premierato sono solo la punta dell’iceberg di una competizione sempre più scoperta tra le diverse forze politiche del centrodestra, dove ogni partito gioca una partita propria, mirando più alla sopravvivenza e alla crescita personale che alla tenuta complessiva dell’alleanza.

E se oggi le differenze vengono tenute a bada dalla prospettiva del potere, domani, con l’avvicinarsi del voto e con l’inevitabile resa dei conti sui risultati concreti del governo, potrebbe aprirsi un capitolo completamente nuovo. Un centrodestra meno compatto, più diviso e forse destinato a ridefinire le proprie geometrie interne, in un panorama politico dove tutto sembra precario, al di là delle apparenze.