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EUTANASIA

Era il "Dottor Morte". Kevorkian non colpirà più

Dietro le sue spalle resta una macabra scia lunga 129 suicidi assistiti, almeno un omicio certo e il lucido tentativo
di sovvertire la coscienza del mondo.

Attualità 06_06_2011
Jacob "Jack" Kevorkian
 
Americano di origine armena nato nel 1928, laureato nel 1952 alla Medical School dell’Università del Michigan ad Ann Arbor, reso celebre pure da un film diretto nel 2010 da Barry Levinson e interpretato da Al Pacino, You Don't Know Jack, per tutti, per sempre, Jacob Kevorkian detto "Jack" era il "Dottor Morte".

Il 3 giugno se n’è andato: come i 129 malati terminali che nella sua lunga, tremenda carriera ha assistito nel mentre si strappavano la vita e come quel 130°, l’ultimo della sua lista nera, a cui praticò direttamente l’eutanasia contravvenendo alla leggi degli Stati Uniti e per questo finendo in carcere con una condanna a un quarto di secolo di reclusione. Giudicato in quel frangente colpevole di omicidio di secondo grado, in molti hanno sottolineato il fatto che quell’“angelo della morte” che entrava e che usciva di galera come noi dal supermercato ha sempre scaltramente mantenuto la propria scopertissima attività di propaganda ideologica a favore dell’eutanasia ma soprattutto la sua disinvolta pratica "medica" mortifera dentro i confini dello Stato del Michigan, cioè uno dei pochi dell’Unione nordamericana il cui codice penale non prevede la pena capitale per i reati di omicidio.

Quell’ultima condanna, del resto, Kevorkian la maturò da reo confesso: fu infatti arrestato e processato dopo che, con il suo permesso, il 22 novembre 1998 la rete televisiva Cbs trasmise nel corso del popolare programma 60 Minutes un raccapricciante homevideo (da lui realizzato il 17 settembre precedente) in cui il famigerato patologo somministrava una sostanza letale a un uomo di 52 anni affetto da sclerosi laterale amiotrofica.

Dalla prigione uscì nel 2007 per buona condotta, finendo per tre anni in libertà vigilata con la promessa di non prestare più manforte agli aspiranti suicidi. Poi arrivò il cancro, al fegato.

Era un uomo di genio, Kervokian. Per due persone utilizzò un sistema di sua invenzione battezzato Thanatron ("macchina della morte") che insuflava la morte per endovena; ad altri fece invece indossare certe maschere da cui fuoriusciva biossido di carbonio. Questo sistema lo chiamò Mercitron, "macchina della pietà".

Era un creativo, Kevorkian. Suonava e componeva jazz, soprattutto flauto e organo, e dipingeva, preferibilmente a olio. A volte impiegava però il suo stesso sangue e una sua performance la si ricorda bene: quel quadro in cui un bimbo si ciba di un corpo in decomposizione, come raccontò particolareggiatamente Vanity Fair nel luglio 1994…

Ed era un uomo di teatro, Kevorkian. Le sue prodezze erano iniziate nel 1990, quando, avendo aiutato un’anziana signora, Janet Adkins, a liberarsi dall’Alzheimer e della vita, era finito sotto processo per omicidio. Nel 1991 gli venne revocata la licenza medica, ma fu da quel momento al 1998 che Kevorkian condusse alla morte le sue 130 vittime. Nel 1990 se l’era infatti disgraziatamente cavata con un escamotage: dato che nell’ordinamento dello Stato del Michigan non vi erano provvisioni che colpissero il suicidio assistito, il tutto finì per "mancanza del reato".

Ma era un sofisma. Nello stato del Michigan non vi erano leggi contro il suicidio assistito perché mai, da che mondo era mondo, o, meglio, da che Michigan era Michigan, alcuno aveva pensato fosse cosa buona e giusta sopprimere la vita di una persona mettendo di mezzo la medicina tradita, un senso capovolto della sollecitudine verso i sofferenti e tanta, tanta cattiva filosofia.

Non si trattava, cioè, di un vuoto legislativo, ma della chiara coscienza che le leggi di un Paese - e di uno Stato - sono la difesa concreta di una higher law immodificabile che precede e che vincola il diritto positivo. Oggi parleremmo di “princìpi non negoziabili”, e sin dall’origine negli Stati Uniti li si è messi al riparo dei capricci ponendoli a monte della legge fondamentale. Il principio secondo cui non si uccidono gli innocenti è cioè la base e non il prodotto di quel diritto.

Kevorkian lo sapeva bene e fu per questo che, oltre ad "apostolo dell’eutanasia", divenne uno dei più noti testimonial di quell’ermeneutica della continua reintepretazione della legge fondamentale del Paese che negli Stati Uniti è da decenni il bastione più agguerrito del relativismo e contro cui si erge coraggiosa la scuola dell'"originalismo" (da original intent, l’intento originario con cui i Padri elaborarono, scrissero e vararono la Costituzione federale). In perfetta e pubblica malafede, Kevorkian si fece alfiere di una speciosa e infigarda contrapposizione fra Costituzione federale del 1789 e Dichiarazione d’indipendenza del 1776, trasformando quello strumento giuridico dai limiti noti e dalla natura definita che era la seconda in un proclama universale d’individualismo radicale che erigeva l’uomo a dio di se stesso, a fonte di ogni bene e di ogni male, a essere sufficiente e necessariamente insindacabile.

Un manifesto, cioè, di prometeismo assoluto che non è mai esistito, ma che egli volle persino rappresentare visivamente il giorno che fece ingresso in tribunale mascherato da Thomas Jefferson, il padre della patria che scrisse quella Dichiarazione d’indipendenza da lui stravolta.

Con quella pagliacciata, Kevorkian il travestito mirava alle coscienze degli americani e del mondo intero, insegnando loro il mestiere pericoloso dello scavare fra le pieghe dei documenti onde snidare il non-detto, il sottaciuto, insomma il "diritto implicito".

Blasfemo, gli disse però dall’Aldilà l'"intento originale" di Thomas Jefferson ricordandogli il preambolo di quella Dichiarazione d’indipendenza che recita: «Noi riteniamo queste verità essere autoevidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili, che fra questi vi sono vita, libertà e perseguimento della felicità» (corsivo nostro).