Embargo russo il conto salato lo paga l'Italia
Coldiretti documenta il danno economico delle mancate esportazioni nel settore agroalimentare verso Mosca: 600 milioni. In totale: 3,6 miliardi. Restano i danni alla nostra economia. Che dimostrano come il nostro Paese non abbia mai avuto in questa partita nessun progetto di politica estera.
Una manifestazione di protesta contro il perdurare dell’embargo alla Russia, cui hanno partecipato l’altro ieri a Verona quasi diecimila agricoltori organizzati dalla Coldiretti, è venuta a ricordarci che l’Italia è il Paese che più di tutti fa le spese dell’Ostpolitik dell’Unione Europea a guida tedesca.
L’embargo - che non riguarda le esportazioni di gas russo verso l’Ue, di cui la Germania è il primo acquirente - colpisce invece le esportazioni europee verso la Russia di prodotti, come in primo luogo i generi agro-alimentari di qualità, i mobili, l’arredamento in genere, i prodotti di lusso: i settori insomma in cui l’Italia era ai primi posti. Il danno è particolarmente grave nel caso dell’agro-alimentale dove l’embargo è assoluto.
Secondo la Coldiretti negli ultimi due anni sono perciò venute meno esportazioni per un valore di 600 milioni di euro. Secondo la Cgia di Mestre, nell’insieme, ossia compresi anche tutti gli altri settori, meno di due anni di guerra commerciale e diplomatica tra Ue e Russia sono costati all'Italia 3,6 miliardi in mancate esportazioni verso Mosca. Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto sono le regioni che ne risultano più danneggiate. Fatto sta che la Russia, che nel 2013 era l'ottavo paese per destinazione dell'export italiano, è diventato nel 2015 il tredicesimo. E il bello è che tra i Paesi che l’hanno scavalcata ce ne sono diversi che sono membri dell’Unione Europea.
All’origine delle sanzioni e dell’embargo imposti alla Russia c’è, come molti ricorderanno, la crisi iniziata nel febbraio 2014 quando Mosca aveva invaso la Crimea. Territorio storicamente russo, e anche di particolare valore simbolico per Mosca, al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica la Crimea aveva seguito le sorti dell’Ucraina cui era passata nel 1954, ossia in tempi in cui il confine tra i due Paesi era semplicemente amministrativo e non politico. Non mancavano dunque buone ragioni per un ritorno della Crimea a Russia, anche se ovviamente non si può plaudire a questo modo di risolvere la questione. Pochi mesi dopo, nel susseguente aprile 2014, Mosca aveva anche innescato pure una rivolta delle regioni russofone dell’Ucraina Orientale poi degenerata in una vera e propria guerra civile oggi nell’ambigua fase di un instabile armistizio.
La Russia di Putin è essenzialmente la Russia di sempre: insieme civile e barbara, patria sia di Dostojevskij e di Berdjaev che di Ivan il Terribile e di Lenin, gigante dello spirito ma anche sempre incline ad affrontare le sfide della storia a colpi di bastone, anzi di mazza ferrata. Per chi voglia rendersene conto approfonditamente suggerisco la lettura de Il Medioevo russo e de la Russia imperiale (1682-1917), Jaca Book 2016, opera magistrale in due volumi di Giovanni Codevilla, il maggior specialista italiano in materia.
Nel 2014, di fronte a quanto stava accadendo in Ucraina, la Russia di Putin ha reagito da Russia. Ha reagito però a una provocazione che Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Germania avevano abilmente orchestrato; anche di questo occorre tener conto. Mosca poteva sopportare la totale uscita dalla sua area di influenza dei Paesi Baltici e anche dell’intera Mitteleuropa, ma non che l’Ucraina si mettesse sulla medesima strada. L’Ucraina deve restare nel suo ruolo di Paese-ponte tra Ue e Russia senza andare più in là. E’ nella sua natura, quindi nel suo stesso interesse; e conviene anche all’Unione Europea. Un impegno leale dell’Occidente a rispettare tale ruolo dell’Ucraina è la premessa indispensabile allo sblocco della crisi. Reiterare le sanzioni e l’embargo contro Mosca senza assumersi tale impegno non serve a nulla se non a prolungare la crisi sine die.
Lo sblocco della crisi ucraina è insomma possibile, con vantaggio tanto della pace quanto delle nostre esportazioni, ma solo se il nostro governo cessa di piegarsi a suo e nostro danno alla politica di Berlino e di Washington verso la Russia. E decide finalmente di darsi ciò che dimostra di non avere, ossia un suo progetto ragionato di politica estera. Un progetto coerente con i nostri interessi e il nostro ruolo in Europa che è sostanzialmente mediterraneo e danubiano, e non nordatlantico.