Elisabetta II, custode dell'identità in tempi sconvolgenti
Elisabetta II, in 70 anni di regno e 96 anni di vita, decenni rivoluzionari e turbolenti, è riuscita in un'opera che non era affatto scontata come oggi la si potrebbe a posteriori considerare: mantenne saldo il ruolo del monarca come rappresentante simbolico e fattuale dell'intera nazione. Un "miracolo laico". Il successore Carlo sarà all'altezza?
La pressoché unanime emozione suscitata nel mondo dalla notizia della morte di Elisabetta II, regina d'Inghilterra e del Regno Unito, dopo 70 anni di regno e 96 anni di vita, non è dovuta soltanto al fatto che, naturalmente, la lunghissima durata della sua carica ha fatto sì che ella sia divenuta una presenza familiare per generazioni di persone di ogni paese, abituate ormai a considerarla quasi inscalfibile dal tempo. Quella emozione deriva in realtà soprattutto dalla diffusa consapevolezza di quanto Elisabetta abbia compiuto, nel suo settantennio, una sorta di miracolo laico, tanto più evidente per contrasto alla sua connaturata discrezione: assicurare la continuità di istituzioni politiche secolari, di una tradizione, di una identità nazionale e di civiltà in un'epoca – come quella dagli anni del secondo dopoguerra ai giorni nostri – tra le più instabili e disseminate di sconvolgimenti politici, economici, socio-culturali che la storia della civiltà euro-occidentale ricordi.
Si può dire che fin dall'infanzia e dalla fanciullezza la vita di Elisabetta sia stata segnata dalle sfide poste da mutamenti traumatici. Prima la subitanea, scandalosa abdicazione dello zio Edoardo VIII e l'inattesa ascesa al trono del padre Giorgio VI. Poi lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, i mesi terribili delle bombe tedesche su Londra e altre città, la coraggiosa testimonianza di resistenza e vicinanza al popolo britannico data da tutta la famiglia reale. Alla fine vittoriosa del conflitto la disgregazione dell'impero, le sofferenze della ricostruzione, la cortina di ferro della guerra fredda calata sull'Europa, la morte prematura di Giorgio che portò sul trono Elisabetta, prima donna a regnare dall'epoca di Vittoria all'età di 26 anni.
L'inizio del regno di Elisabetta coincise con la fase di nuova, crescente prosperità della Gran Bretagna e di tutto l'Occidente, con una maggiore sicurezza sociale, con l'euforia delle nuove generazioni cresciute nella pace e nelle aspirazioni di una vita più felice, sfociate nel periodo di grande creatività della swinging London che portò la cultura pop inglese ad esercitare una grande influenza nel mondo. Ma tale crescita avvenne in un clima di radicale contrapposizione ideologica e di politica internazionale, sotto l'incubo costante dell'apocalisse atomica, in un processo di rapida trasformazione dell'euforia giovanile in ribellione generazionale negli anni Sessanta e Settanta.
Elisabetta, in quei decenni rivoluzionari e turbolenti e anche dopo, riuscì in un'opera che non era affatto scontata come oggi la si potrebbe a posteriori considerare: mantenne saldo il ruolo del monarca come rappresentante simbolico e fattuale dell'intera nazione, come garante dell'opposizione e della maggioranza non distante dall'attualità ma al di sopra delle rivalità di partito, agente silenzioso ma efficace di moral suasion, rendendo concretamente possibile la conciliazione tra l'eredità liberale, pluralista, rispettosa delle minoranze della storia britannica e la società di massa in un'epoca già di crescente globalizzazione, favorita anche dall'esplosione dei mass media. Nel momento della corrosione più profonda dell'istituto monarchico, contestato da più parti violentemente come anacronistico privilegio privo di giustificazioni, la regina riuscì con avvedutezza a rivalutarlo, rendendo esso stesso in qualche misura “pop”: a partire dal titolo di baronetto concesso a personaggi popolari come i Beatles e la stilista Mary Quant. Persino le irrisioni più feroci e anarcoidi, come quelle dei Sex Pistols e degli Smiths con le canzoni God save the Queen (1976) e The Queen is dead (1986), non pregiudicarono il suo prestigio, ma paradossalmente nel tempo lo rafforzarono, quasi ponendo in evidenza il contrasto tra la rumorosa, ma effimera contestazione giovanile e la silenziosa, paziente durata della donna a capo del paese.
Ma tempi altrettanto, se non più turbolenti furono per Elisabetta quelli che seguirono: gli anni di Margaret Thatcher, con la rinascita economica post-Settanta ma anche con nuovi conflitti sociali di enorme intensità; gli anni di Blair, che furono quelli della ricca cool Britannia ma anche quelli dell'11 settembre e del lacerante coinvolgimento del paese nei conflitti afghano e iracheno; gli effetti dolorosi della globalizzazione a trazione asiatica sul modello sociale britannico; le tensioni con l'Unione europea sfociate nella fase della Brexit tra 2016 e 2020; infine, la pandemia di Covid-19, la guerra russo-ucraina, la nuova recessione che ha cominciato a mordere anche la global Britain voluta da Boris Johnson. E forse ancor più preoccupanti per la stabilità della Corona, nel periodo dagli anni Ottanta in poi, furono le vicende interne alla famiglia reale, la cui fase più drammatica si può considerare senza dubbio la crisi del matrimonio tra il primogenito ed erede al trono Carlo e la principessa Diana Spencer, e poi la tragica morte di quest'ultima, che fece di nuovo vacillare pericolosamente la popolarità della Casa reale.
A tutte queste diverse, ma altrettanto radicali sfide Elisabetta ha reagito sempre con la stessa strategia: una calma compassata ma non indifferente, il rifiuto dell'enfasi e dell'emotività, un atteggiamento di quieta, vigile cura per i suoi sudditi, nel rispetto per il libero gioco della dialettica sociale e politica. In tal modo la regina ha gradualmente “convertito” anche quasi tutti i più scettici detrattori dell'istituto monarchico, rassicurati dall'idea di avere in esso un'ancora di salvezza, una roccia salda ma empatica nell'inquietante succedersi di circostanze sempre più incerte. E ha rafforzato in misura decisiva l'idea condivisa che, nonostante l'apparente dominio di un relativismo totale, per il benessere di una società sia decisiva la salvaguardia dell'identità nazionale sulla base di radicati, immutabili princìpi etico-religiosi. Un patrimonio fondamentale che Elisabetta lascia in eredità al nuovo re Carlo e a tutti i britannici.
Un'eredità difficile, per la quale il successore non appare, per quanto fino a oggi lo conosciamo, altrettanto attrezzato, essendo psicologicamente più fragile e spesso preda di suggestioni emotive e ideologiche (un ecologismo integralista condito di malthusismo). Ma la storia delle isole britanniche è abituata a stupirci. Speriamo lo faccia, nel bene, anche questa volta.