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SCIOLTE LE CAMERE

Elezioni il 4 marzo, rischio caos

Dopo lo scioglimento delle Camere ed elezioni fissate al 4 marzo, comincia una campagna elettorale incertissima. Stando ai sondaggi attuali la situazione più probabile è quella della ingovernabilità.

Editoriali 29_12_2017
Mattarella e Gentiloni

Il Presidente della Repubblica ha sciolto le Camere, la diciassettesima legislatura è terminata e il 4 marzo gli italiani saranno chiamati alle urne per rinnovare il Parlamento. Tutto secondo le previsioni, quindi. Il Capo dello Stato e il Presidente del Consiglio avevano promesso una conclusione regolare della legislatura e così è stato. Si è evitato un voto sullo Ius soli, che avrebbe potuto riaprire divisioni soprattutto a sinistra, e la questione è stata rinviata ai prossimi mesi. Nel frattempo, però, si sta aprendo ufficialmente una delle campagne elettorali più incerte della storia della Repubblica.

Paolo Gentiloni, nella conferenza stampa di fine anno, ha elogiato i provvedimenti presi dal suo governo, ha sostenuto che l’economia è in ripresa e ha sbandierato ai quattro venti provvedimenti come le unioni civili e il biotestamento, indicandoli come fiori all’occhiello degli ultimi governi.
Ha annunciato che sarà candidato per il Pd in un collegio uninominale e che dunque ci metterà la faccia, come gli ha chiesto di fare il premier Renzi. Il governo continuerà nell’ordinaria amministrazione, come previsto dalla Costituzione, e toglierà il disturbo presumibilmente solo dopo l’elezione dei Presidenti delle due Camere, prevista verso il 25 marzo. A quel punto il Quirinale dovrà incaricare un Presidente del consiglio che possa ottenere la maggioranza in Parlamento e formare un nuovo governo.

Le incognite non sono poche. Anzitutto quelle legate al funzionamento del Rosatellum, sistema elettorale misto proporzionale-maggioritario, che rischia di produrre un quadro politico assai frammentato. I sondaggi sin qui diffusi sono concordi nel prevedere un pareggio tra coalizioni e nell’escludere che dalle urne possa uscire una maggioranza chiara e solida.
Di qui l’ipotesi che l’attuale premier possa rimanere anche più a lungo al suo posto, per assicurare governabilità all’Italia anche nei mesi successivi al voto, quando ci saranno alcune scadenze internazionali che richiederanno la presenza di un esecutivo.

Ma su questa eventualità pesa il risultato del Pd alle prossime elezioni, visto che Gentiloni si candiderà in quel partito. Se i dem uscissero con le ossa rotte dal voto, come potrebbe l’attuale premier restare a Palazzo Chigi senza risultare delegittimato? E quali forze politiche potrebbero appoggiare un suo eventuale esecutivo, considerato che i centristi alfaniani si sono divisi e i parlamentari attuali che hanno aderito a Liberi e Uguali si presenteranno alle elezioni in competizione con il Pd?

Appare dunque puramente teorica la prospettiva di un Gentiloni bis, tanto più che anche il leader del centrodestra Silvio Berlusconi ha escluso governi di larghe intese.
Pd e Forza Italia, peraltro, ben difficilmente potrebbero raggiungere insieme il numero di parlamentari necessari per avere la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Più realistiche anche se ugualmente problematiche appaiono altre prospettive di governo come quella di un accordo tra Movimento Cinque Stelle e il nuovo partito di Pietro Grasso e Laura Boldrini, che si presentano entrambi da soli e che non dovrebbero chiedere permessi ad alcun alleato per poter eventualmente fare accordi.

Diversa appare la situazione della Lega, che nell’uninominale otterrà molti collegi da Forza Italia e dunque riuscirà ad eleggere molti parlamentari anche grazie ai voti delle altre forze politiche di centrodestra. Pensare che quei senatori e deputati, una volta eletti anche con i voti di Forza Italia, Fratelli d’Italia e quarta gamba centrista, possano andare al governo con i grillini appare altamente improbabile.

Ecco perché lo spettro di nuove elezioni da riconvocare entro l’estate o al massimo in autunno, a causa dell’impossibilità di formare il nuovo governo e di trovare i numeri in Parlamento per dar vita a un nuovo esecutivo, sembra tutt’altro che remoto. A meno che l’attuale Presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi non venga invocato come nuovo premier e salvatore della patria per far uscire il Paese dalla palude e dall’impasse. A lui quasi nessuno potrebbe dire di no.

Nel 2013 i sondaggi davano in vantaggio di circa 4 punti il centrosinistra e l’allora segretario Pd, Pierluigi Bersani si sentiva già la vittoria in tasca. Circolavano perfino liste semiclandestine di ministri e per la Presidenza della Repubblica, in vista della scadenza del mandato di Giorgio Napolitano, saliva il nome di Romano Prodi. Tutti sanno come è poi andata a finire. «Siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto», commentò sconsolato Bersani a urne chiuse. Il segretario dem ricevette un mandato esplorativo ma non riuscì a formare un esecutivo e a quel punto, dopo la riconferma quasi obbligata di Giorgio Napolitano al Quirinale, nacque il governo Letta, appoggiato da tutte le forze politiche cosiddette “responsabili”, Forza Italia compresa.

La decadenza di Berlusconi da senatore, dovuta all’applicazione della legge Severino a seguito della condanna con la sentenza Mondadori, ha incrinato il fronte della collaborazione istituzionale, aprendo la strada a Renzi e a Gentiloni, con la scissione degli alfaniani. Ora il quadro politico è ancora più frammentato e il sistema elettorale sembra rendere ancora più problematica la governabilità. Non vorremmo essere nei panni di Sergio Mattarella.