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STORIA

Egitto, una lettura alternativa

In Egitto i regimi modernisti e militari sono caduti in favore dell'islam politco. Come dimostrano le recenti "primavere arabe", anche l'islam politico sembra aver fallito. Sarebbe però sbagliato pensare che l'Egitto torni a una soluzione laica.

Esteri 10_07_2013
bandiera egiziana

Di fronte agli avvenimenti egiziani, come a quelli turchi del mese scorso, si confrontano sui media italiani due letture. La prima è soprattutto preoccupata dall'islam politico, tuttora al potere in Turchia con Erdogan e al potere fino a ieri in Egitto con Morsi, e si rallegra se i governi islamici sono in crisi o sono rovesciati, non importa da chi o con quali mezzi. La seconda - molto  diffusa anche negli Stati Uniti e in Francia -  concentra la sua attenzione sulla democrazia e i diritti umani, e si preoccupa quando sono imposte soluzioni «non democratiche», salvo poi trovarsi in difficoltà a identificare chi sia veramente «democratico» nei vari contesti nazionali. I commentatori cattolici privilegiano di solito la prima lettura, perché l'islam politico tratta spesso in modo particolarmente discriminatorio le minoranze cristiane, e perfino i militari e i dittatori sembrano preferibili.

Entrambe le letture contengono elementi apprezzabili, ma sembrano talora carenti di riferimenti a un quadro più ampio. Il problema non nasce con le cosiddette primavere arabe. Nasce con l'assedio di Vienna del 1683, la più grande sconfitta della storia dell'islam, su cui i musulmani discutono ancora oggi. Un esercito più numeroso, meglio addestrato, meglio armato e che aveva dalla sua anche profezie di vittoria che risalivano alle origini dell'islam non poteva perdere. Ma perse. Perché? Fin da subito nel mondo islamico si contrapposero due risposte. Per la prima, l'islam aveva perso perché era rimasto indietro rispetto all'Europa. Si trattava di fare appello a consulenti europei e modernizzare l'esercito, l'amministrazione, il governo, finendo poi per modernizzare fatalmente anche la cultura. Per la seconda risposta era tutto il contrario: l'islam aveva perso perché si era avvicinato troppo all'Europa. I primi musulmani del deserto erano analfabeti, ma vincevano tutte le battaglie. Al momento della sconfitta di Vienna - secondo questa lettura - i sultani di Istanbul avevamo a corte pittori francesi e musicisti italiani, ma avevano perso la fede semplice che consentiva ai loro antenati di vincere in guerra.

Fin dall'inizio questa seconda lettura - chiamata prima «tradizionalista» e poi, quando si dotò nel secolo XIX di una maggiore struttura ideologica, «fondamentalista» - fu minoritaria e confinata a «periferie dell'impero», liquidate con un'alzata di spalle come irrilevanti dai sultani ottomani: l'Arabia, la Nigeria, l'India. Prevalse la prima lettura - quella «modernista» - con le modernizzazioni dei sultani che prepararono quelle, più radicali, dei Giovani Turchi e di Kemal Atatürk (1881-1938). La massoneria, che si era ampiamente diffusa in Medio Oriente, offrì ai «modernisti» un quadro dottrinale di riferimento, e la decolonizzazione quasi ovunque fu gestita da sostenitori di questa corrente, che controllavano le forze più organizzate nei vari Paesi, gli eserciti. Il «fondamentalismo» restò minoritario e perseguitato. La prima risposta al dilemma dell'islam sembrava unanimemente vittoriosa.

Nel decennio 1979-1989, tuttavia, le cose iniziarono a cambiare. Nel 1979 per la prima volta il fondamentalismo vinse e andò al potere, dove nessuno se lo aspettava: in Iran, dove il regime degli scià sembrava offrire il volto più attraente e patinato della modernizzazione. I regimi militari, laici e massonici  usciti dalla decolonizzazione si rivelarono quasi ovunque brutali e corrotti. In politica estera molti si erano appoggiati all'Unione Sovietica, che prima divenne invisa ai musulmani invadendo il sacro suolo dell'islam in Afghanistan e poi sparì dalla scena mondiale.

La crisi della prima risposta, modernista, al dilemma dell'islam diede vigore alla seconda, fondamentalista. I regimi militari tennero, spesso con l'aiuto non più dell'Unione Sovietica ma di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Ma tennero con sempre maggiore difficoltà. Nel Paese economicamente più avanzato, la Turchia, l'islam politico dopo l'11 settembre 2001 comprese che si apriva una possibilità per una svolta storica: i leader più giovani, Erdogan e l'attuale presidente della repubblica Gül, «rottamarono» i vecchi capi fondamentalisti e aprirono con gli Stati Uniti e la classe imprenditoriale turca un dialogo in cui si proponevano come capaci d'interpretare l'aspirazione ad avere «più islam» coniugandola con l'efficienza economica e il dialogo con l'Occidente. Travolsero le resistenze dei militari e stravinsero le elezioni, continuando regolarmente a vincerle fino a oggi.

In altri Paesi le dittature laiche tennero ancora perché garantivano un minimo benessere, grazie o al petrolio o agli aiuti internazionali. Quando con la crisi economica globale iniziata nel 2008 gli aiuti diminuirono, e i regimi autoritari laici cominciarono a socializzare non più la sopravvivenza ma la miseria, in tre Paesi senza petrolio - Tunisa, Egitto e poi Siria - scoppiarono le rivolte di piazza. In Libia, Paese petrolifero e relativamente prospero, non scoppiò nessuna rivolta, ma i servizi segreti di alcuni Paesi occidentali, con la Francia in testa, profittarono della crisi regionale per saldare vecchi conti con il regime di Muammar Gheddafi (1942-2011). A differenza di quella libica, che era fasulla, le altre rivolte erano vere. Secondo uno schema plurisecolare, delusi dai modernisti, i rivoltosi si rivolsero ai fondamentalisti e li portarono al potere in Tunisia e in Egitto, e alla guida della rivolta in Siria.

Che cosa succede ora? Il pendolo è già passato dall'altra parte? Una prima lettura potrebbe suggerire che, dal momento che anche i fondamentalisti non hanno risolto i problemi di questi Paesi e la miseria continua, le piazze hanno deciso che «si stava meglio quando si stava peggio» e - posto che le vere alternative sono solo due - si stanno rivolgendo di nuovo ai modernisti, incarnati dai militari che sono in buona parte anche massoni,  con l'appoggio delle minoranze religiose cristiane che hanno sempre considerato i modernisti meno ostili dei fondamentalisti. Questa prima lettura non è totalmente falsa, ma è parziale. Molti dimostranti egiziani - e turchi - non hanno certamente dimenticato quanto corrotti e inefficienti fossero i governi modernisti che l'islam politico ha sostituito. Né bisogna confondere l'opinione di qualche blogger che parla inglese con gli umori profondi di milioni di persone.

In Egitto - dove la rivolta è contro la corruzione e la miseria - e in Turchia - dove si protesta contro episodi di corruzione, ma non contro la miseria, perché l'economia va piuttosto bene - la piazza è più complessa di quanto spesso la si presenti. Ci sono certamente nostalgici dei modernisti e nemici dell'islam politico. Ma in Egitto erano in piazza anche i salafiti,  sostenitori di un partito che ha una base elettorale più ampia di tutti i partiti laici e che rimprovera a Morsi di avere immesso nella vita politica e sociale egiziana non troppo islam, ma troppo poco. In Turchia è sfuggito ai più che lo scontro in atto è in gran parte interno all'islam politico e al mondo delle confraternite islamiche, e contrappone Erdogan al più autorevole predicatore islamico turco - che vive in Pennsylvania -, quel Fehtullah Gülen che controlla un impero di giornali, televisioni, scuole e università e il cui cuore batte più per il presidente Gül che per il primo ministro con cui Gül è oggi spesso in dissenso. Certo anche in Turchia vanno in piazza nostalgici dell'Atatürk e dei militari. Ma sono molto più capaci di farsi ascoltare dai giornalisti stranieri che dagli elettori turchi.

La risposta laica, massonica, militare e nazionalista ai problemi - gravissimi e strutturali - del mondo islamico è già fallita quasi ovunque, e la crisi e l'inefficienza dei governi dell'islam politico eletti dopo il fallimento dei modernisti non ha molta possibilità di risuscitarla, per quanto goda della simpatia di tanti media occidentali. A gioco lungo, è più probabile che si assista non alla sconfitta ma alla ricomposizione dell'area dell'islam politico, con nuovi protagonisti - anche all'insegna del ricambio generazionale -, nuove competenze e nuovi programmi. Il ruolo dei salafiti in Egitto ci dice che questa ricomposizione non andrà necessariamente nel senso di un minore estremismo.

L'Europa e gli Stati Uniti ripeterebbero però un vecchio errore se si entusiasmassero per vecchi arnesi militari o blogger che non contano nulla nel mondo non virtuale, e puntassero le loro carte su un improbabile ritorno dei modernisti e dei nemici dell'islam politico che, dove ci sarà, sarà effimero. La strada paziente, di cui è maestra la diplomazia vaticana, che mira a identificare nell'islam politico - una realtà immensa e non monolitica - possibili interlocutori disposti ad aprire un difficile dialogo anche sulla questione delle minoranze cristiane, rimane il cammino più impervio ma anche più saggio e lungimirante.