Eco e Cirinnà: ecco dove casca il cattolico privato
L’avvenimento cristiano non come risposta esauriente alla domanda di senso dell’esistenza nostra e di tutti, bensì come handicap col quale imparare a convivere. Ci sembra questa in fin dei conti la mesta e ben poco attraente testimonianza che larga parte dell’establishment cattolico, e cristiano in genere, del nostro Paese oggi offre.
L’avvenimento cristiano non come risposta esauriente alla domanda di senso dell’esistenza nostra e di tutti, bensì come handicap col quale imparare a convivere. Ci sembra questa in fin dei conti la mesta e ben poco attraente testimonianza che larga parte dell’establishment cattolico, e cristiano in genere, del nostro Paese sta offrendo in questi tempi.
Lo spunto più recente per tale magra figura è stato dato da due eventi assai diversi tra loro, ma che al riguardo producono risultati analoghi: si tratta del dibattito sul disegno di legge Cirinnà e rispettivamente della morte di Umberto Eco e quindi della celebrazione del suo pensiero e della sua opera. Prendiamo le mosse da quest’ultimo episodio, che è di più stretta attualità tanto più considerando che i suoi solenni funerali civili hanno luogo oggi a Milano nella monumentale cornice del cortile del Castello Sforzesco.
Come troppo spesso accade quando ci lascia una nota personalità “laica”, anche in questo caso è subito scattata la patetica ricerca del cristiano recondito che poteva eventualmente nascondersi in qualche angolo più o meno remoto dell’anima sua. Unica lodevole eccezione, Vittorio Messori, grazie al cui articolo di ieri sul Corriere della Sera apprendiamo ciò che ad esempio Avvenire ci aveva pudicamente taciuto. Nel caso di Eco la cosa è stata più che mai sentita considerando la sua militanza giovanile nell’Azione Cattolica, di cui per un certo tempo era anche divenuto un dirigente nazionale.
Se un cristiano invisibile dall’esterno si nascondesse in fondo alla sua anima ne saremmo lieti per lui come persona, e felici per lui se ciò gli avesse spalancato orizzonti inattesi al momento del suo trapasso, ma non c’entra per nulla con la sua opera su questa terra. Umberto Eco era un ateo volteriano da secolo XVIII, di quelli che non ci si aspetterebbe più di incontrare oggi; e non l’ha mai nascosto. La prima forma di rispetto per la sua memoria dovrebbe essere quella di non far finta che non lo fosse. Si diceva amico ed estimatore di Jacques Le Goff, il grande storico che nel 1964 con la pubblicazione de La Civiltà dell’Occidente Medioevale cominciò a mandare in soffitta il giudizio illuminista sul Medioevo come epoca dei “secoli bui”. Pur conoscendone bene l’opera, e a quanto si dice apprezzandola, Eco non esitò tuttavia a mettere con spregiudicato cinismo la propria cultura al servizio di quell’abile riproposizione del peggio della “leggenda nera” sul Medioevo che è il suo celebre best seller Il nome della rosa.
Un romanzo, assai ben costruito allo scopo, che con il suo successo planetario e la sua diffusione in molti milioni di copie – oltre a dare gloria e ricchezza al suo autore – a livello di cultura di massa ha fino ad oggi sommerso l’esito delle acute ricerche di Le Goff e degli altri storici degli “Annales” suoi continuatori, da Lèo Moulin a Régine Pernoud e così via. Grazie a Eco e al suo Il nome della rosa, nonché ai successivi romanzi da lui scritti con analoga ispirazione, la “leggenda nera” sul Medioevo nata con Voltaire sopravvive malgrado tutto. E anzi è anche andata ben oltre i confini della stessa cultura di massa occidentale fino a raggiungere lettori di ogni angolo della terra. Ciononostante in questi giorni in ambiente cattolico è stata tutta una rincorsa a rimpiangere Eco e a tesserne le lodi di intellettuale, di bibliofilo, di super-ambasciatore (ahimè) della cultura italiana nel mondo senza dire una parola sulla sua filosofia.
Se l’apoteosi post-mortem di Umberto Eco non potrà comunque che spegnersi ben presto, senza molto aggiungere al successo della sua opera, trattandosi invece di una questione ancora aperta lascia interdetti la diffusa resa a priori dell’establishment cattolico sia laico sia ecclesiastico di fronte alla vicenda del disegno di legge Cirinnà: una proposta organicamente eversiva del matrimonio e della famiglia di cui la cosiddetta stepchild adoption è in effetti solo un particolare certamente drammatico ma non determinante. In primo luogo si vede benissimo la sudditanza culturale di buona parte di tale establishment, che come un pesciolino nell’acquario si nuove dentro un perimetro di informazioni selezionate da altri ai loro fini.
Non si rende così conto di quale sia il contenuto sostanziale del disegno di legge Cirinnà, e crede disciplinatamente che l’Italia sia «l’ultimo paese d’Europa a non avere introdotto il matrimonio omosessuale» quando in effetti 12 Stati membri su 28 non ce l’hanno e non intendono affatto introdurlo, e 4 hanno solo le unioni civili (vere, non un matrimonio civile mascherato come quello previsto dal ddl Cirinnà) e non intendono andare oltre. Come pure non sa che i Paesi con il matrimonio omosessuale sono soltanto circa 20 sui 200 rappresentati all’Onu. E che in sede di Assemblea generale dell’Onu c’è una stabile e larga maggioranza contraria a qualsiasi normalizzazione e istituzionalizzazione dell’omosessualità.
Al di là di questo, tuttavia, c’è una delicata questione di sostanza. Quale che il giudizio che se ne vuol dare, episodi come la grande assemblea nazionale di massa che si raccolse a Roma al Circo Massimo il 30 gennaio scorso dimostrano l’esistenza di una grande fetta della società italiana che non trova proporzionata rappresentanza né in sede politica né in sede di grandi agenzie della comunicazione di massa (Tv e grandi quotidiani). Una grande fetta della società italiana che non si riconosce affatto in quella riduzione della fede allo stretto privato, fino alla sua concreta irrilevanza e alla totale subalternità a visioni del mondo altrui, di cui l’attuale premier e diversi altri membri del suo governo sono un esempio tipico. Una grande fetta della società italiana che nel suo prevalente segmento cattolico ha chiaro, magari anche a modo suo, che la fede è in primo luogo una vita generata dal riconoscimento di una comune appartenenza a Gesù Cristo.
Diversamente da come si è visto in Tv, la grande assemblea di cui si diceva è stata infatti in primo luogo un gesto di vita, come bene ha potuto bene vedere chi si trovava tra quella folla. Sarebbe un equivoco, e paradossalmente una ricaduta all’indietro nel pensiero dialettico, in una logica di tesi e antitesi, far divenire alternativo ciò che invece è complementare, anzi organico. Testimonianza privata e pubblica hanno ovviamente senso soltanto nella misura in cui sono le due facce della medesima medaglia: così devono venire vissute e così ognuno deve preoccuparsi che ciò sia. Non sono una la norma e l’altra l’eccezione. Poi si tratta di vivere al meglio sia l’una sia anche l’altra, ma questo è un altro problema.