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L'ANALISI

Ecco cosa si nasconde dietro l’attacco in Borsa alle nostre banche

Le ultime settimane sono state particolarmente agitate sul fronte bancario. Insieme alle polemiche sulla soluzione data per la crisi delle quattro banche, si è scatenata una corsa alle vendite in Borsa per tutto il settore. Così la speculazione trova facile gioco nella situazione di fragilità del sistema bancario italiano. 

Editoriali 20_01_2016
Crollano i titoli delle banche

Le ultime settimane sono state particolarmente agitate sul fronte bancario. Mentre non accennano a spegnersi le polemiche sulla soluzione data per la crisi delle quattro banche (la Cassa di risparmio di Ferrara e quella di Chieti, la Banca delle Marche e quella dell’Etruria) si è scatenata una corsa alle vendite in Borsa per tutto il settore sulla scia della notizia di una richiesta di informazioni della Banca centrale europea sulla consistenza delle possibili perdite per alcuni tra i maggiori istituti.

Quello che avrebbe dovuto essere un passaggio di tutta normalità, perché uno dei compiti della Bce è proprio quello di sorvegliare gli equilibri patrimoniali delle banche, è diventato invece una fonte non solo di preoccupazione, ma soprattutto di speculazione che ha trovato facile gioco nella situazione di sostanziale fragilità in cui si trova il sistema bancario italiano. Al contrario degli altri Paesi, dove governi e banche centrali, sono tempestivamente intervenuti rafforzando le garanzie e fornendo nuovi mezzi agli istituti in difficoltà, in Italia il governo non ha trovato di meglio che varare, proprio un anno fa, una riforma delle banche popolari obbligando le più grandi a trasformarsi in società per azioni secondo il mito della contendibilità.

Abbiamo già avuto modo, fin nei giorni immediatamente successivi a quell’improvvido decreto, di segnalare (clicca qui) come quella riforma fosse immotivata nei presupposti e pericolosa nell’attuazione e come la trasformazione obbligata avrebbe aumentato i problemi, anziché risolverli. In questi giorni non solo la tempesta in Borsa ha dimostrato la fragilità del settore, ma sul fronte del reale stato degli istituti di credito una ricerca dell’ufficio studi di Mediobanca  (sicuramente al di sopra di ogni sospetto di partigianeria) ha dimostrato, numeri alla mano, come le banche popolari si siano comportate negli ultimi anni in maniera più virtuosa del resto del sistema bancario.

«I dati consuntivi del periodo 2005-2014», afferma il rapporto, «mettono in evidenza per le principali banche popolari una dinamica gestionale relativamente più virtuosa (o meno viziosa) rispetto a quella delle altre categorie, sia per quanto riguarda gli aspetti aziendali, sia per gli interessi del Paese». Scendendo nel dettaglio le banche popolari hanno guadagnato quote di mercato per il credito erogato alle economie locali passando dal 22 al 25,5%; hanno visto crescere il numero dei soci saliti da 1.150.000 a 1.330.000; hanno aumentato il numero dei clienti a 12,3 milioni (+1,5 milioni); hanno fatto crescere il credito verso il Terzo settore per 7 punti in più del sistema bancario nel suo insieme.

Certo, per tutto il sistema bancario il periodo attuale è uno dei più difficili. Dopo sette anni di crisi dell’economia reale, di crollo della produzione industriale e dell’occupazione, di chiusura di aziende era inevitabile che aumentassero i crediti in sofferenza. E che alcune banche gestite più per interessi personali o clientelari entrassero in forti difficoltà. Ma anche le crisi delle quattro banche ha dimostrato come il problema non fosse nel modello giuridico, e infatti una sola era “popolare” mentre le altre tre erano società per azioni, ma unicamente nelle scelte gestionali dei dirigenti.

E intanto le grandi banche popolari, che sono state per decenni un pilastro della crescita nelle aree più dinamiche del Paese come la Lombardia e il Veneto, stanno diventando contendibili diventando società per azioni, perdendo la logica mutualistica e cooperativa e abolendo il voto capitario che garantiva la partecipazione paritaria di tutti i soci. Ma non basta. Sono mesi che si parla di riforma del credito cooperativo, di quel sistema delle casse rurali che ancor più delle popolari ha rappresentato la logica di un credito strettamente legato ai piccoli territori di competenza. Anche questo sistema ha requisiti patrimoniali migliori di quelli dei grandi istituti di credito e ha dimostrato e continua a dimostrare la capacità di risolvere all’interno eventuali difficoltà di singoli istituti. 

Il credito cooperativo ha anche preparato un’autoriforma per consolidare e garantire ancora di più l’operatività salvaguardando l’autonomia e la responsabilità delle singole casse. Ma questa riforma è rimasta in sospeso per la mancanza di una chiara indicazione legislativa e l’incertezza del futuro non è certo un elemento che sostiene la fiducia. Questo perché la riforma che sembra volere il governo è in pratica quella di obbligare le Casse rurali a diventare semplicemente delle filiali, degli sportelli di una nuova grande banca (l’esempio è quello del Crèdit Agricole francese che tuttavia è nato dal basso e non per imposizione legislativa).

Pur tra incertezze e passi falsi, tra manovre occulte e spinte speculative, il sistema italiano del credito resta in Italia sostanzialmente solido. Certo sarebbe meglio se le autorità aiutassero un’evoluzione positiva, valorizzando le originalità positive, invece di inseguire modelli di gigantismo e di contendibilità che  sono gli stessi che sono stati alla base della sciagurata crisi del 2008.