E se si fosse chiamata Banca Arcore?
Il caso del padre del ministro Boschi, iscritto nel registro degli indagati per lo scandalo di Banca Etruria, salvata dal Governo. Cosa sarebbe successo se fosse andata a gambe all’aria nello stesso modo un’ipotetica Banca Popolare della Brianza o un’ipotetica Cassa di Risparmio di Arcore di cui fosse stato vicepresidente senza deleghe un parente stretto di Berlusconi?
Tra il maggio 2014 e il febbraio 2015 il padre del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, Pierluigi Boschi, è stato vicepresidente senza deleghe della Banca Popolare dell’Etruria del cui consiglio di amministrazione, composto di 15 membri, faceva allora parte. Boschi era dunque in tale posizione quando l’organismo decadde a seguito del commissariamento da parte della Banca d’Italia, intervenuta nel tentativo di salvare dal fallimento lo storico istituto di credito aretino. Su quel consiglio d’amministrazione pende ora un’accusa per bancarotta fraudolenta che ha perciò fatto finire nel registro degli indagati tutti i suoi membri, Pierluigi Boschi compreso.
Il 22 novembre 2015 il Consiglio dei ministro aveva votato un decreto legge per il salvataggio sia della Banca Popolare dell’Etruria che di altri analoghi istituti di credito pure prossimi al fallimento (la Banca delle Marche, la Cassa di Risparmio di Ferrara e la Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti). Per coprire i passivi di queste banche il governo aveva pensato di attingere al Fondo di risoluzione che tutto il sistema bancario italiano alimenta proprio a tutela dei piccoli risparmiatori e correntisti in casi del genere.
Siccome però le decisioni sull’uso di tale Fondo competono al governo e alla Banca d’Italia, e non alle banche che lo alimentano, l’Unione Europea si è opposta giudicando tale intervento una forma di aiuto di Stato, ovvero qualcosa che i vigenti trattati europei vietano. In attesa di risolvere la questione i circa ben 3,6 miliardi di euro che sta costando il salvataggio sono stati prestati “a tassi di mercato e con scadenza massima di 18 mesi” dai tre maggiori gruppi bancari italiani, ossia Intesa Sanpaolo, Unicredit e UBI Banca.
De jure tra le responsabilità amministrative di Pier Luigi Boschi e quelle politiche della figlia non c’è nesso alcuno. E comunque va tenuto per fermo che l’iscrizione nel registro degli indagati non equivale affatto a una condanna, ma anzi è una garanzia per chi viene messo sotto inchiesta. La decisione poi del governo di correre in soccorso dei correntisti e dei piccoli risparmiatori coinvolti nel crac delle quattro banche è ricca di buoni motivi di ordine sia umano che sociale.
Tuttavia è pure lecito domandarsi che cosa sarebbe successo se fosse andata a gambe all’aria nello stesso modo un’ipotetica Banca Popolare della Brianza o un’ipotetica Cassa di Risparmio di Arcore di cui fosse stato vicepresidente senza deleghe un parente stretto di Berlusconi. A contrariis sarebbe un gioco divertente per una serata di pioggia costruirsi grazie a Internet un’antologia dei servizi e dei commenti che i maggiori giornali italiani hanno dedicato al caso di Banca Etruria e poi mettere nomi di parenti stretti di Berlusconi al posto di quello di Pierluigi Boschi; e il nome dell’ex-cavaliere al posto di quello di Maria Elena Boschi. Quindi confrontare questi apocrifi con un’analoga antologia di servizi e commenti su Berlusconi e i suoi. Gli esiti sarebbero di sicuro non soltanto divertenti ma anche istruttivi.
Vogliamo poi magari aggiungere qualche riflessione sull’attacco a freddo che Renzi ha scatenato contro le banche di credito cooperativo? Nessuna di queste banche al momento è nei guai; e quando qualcuna di esse ha avuto dei problemi le altre sono intervenute di loro iniziativa e con fondi propri, senza nulla chiedere allo Stato. Il loro unico difetto è quello di essere (salvo il caso della Toscana) di ambiente cattolico. Una caratteristica che, malgrado la comune forma cooperativa, le distingue dalle banche popolari, di regola “laiche” e talvolta non lontane da ambienti massonici.
Un aspetto positivo dell’attuale crisi della democrazia italiana è l’emergere di tante oscurità che prima restavano coperte. Riformare autenticamente le istituzioni pubbliche del nostro Paese non è facile. Pesano ancora su di esse i compromessi di basso livello e le buie complicità di oltre quarant’anni di Guerra fredda. Senza attribuirsi a priori patenti di innocenza ovvero di intoccabilità ad ogni costo che poi la realtà smentisce sarebbe meglio impegnarsi con umiltà in autentiche riforme condivise senza indulgere a manovre che non servono a nulla se non ad aprire uno spazio incongruo alle ambizioni politiche di certa magistratura. A tale fine occorrono però una chiarezza di visione e una quantità di consenso che oggi non ha nessuno. Non resta dunque che sperare nel futuro, augurandosi che non sia un futuro lontano.