E se quelle radici non ci fossero piantiamole ora
Eredità cristiana e relativismo: una relazione di monsignor Aldo Giordano, osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa.
Pubblichiamo alcuni stralci della relazione pronunciata a Milano, all’Università Cattolica del Sacro Cuore, da monsignor Aldo Giordano, osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa, in occasione della presentazione dei testi ufficiali del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa.
Il frutto della «morte di Dio» è il relativismo. Se Dio è morto, il sole, la verità, l’amore, il bello, in termini assoluti, non possono più esistere. Tutto diviene relativo all’uomo e alla sua radicale finitezza. Se esiste il sole, c’è una sorgente, una prospettiva, un punto di vista interpretativo unico, oggettivo, assoluto a cui guardare e attingere, se non c’è il sole rimane il pluralismo anarchico delle prospettive e delle interpretazioni. Ogni persona diviene sole a se stesso. Invece di un sole, una miriade di soli «soli».
Il relativismo diviene così la verità. Tutto è relativo, meno il relativismo che invece è assoluto, indiscutibile. Se manca l’assoluto, l’uomo cade sempre nella tentazione di assolutizzare qualcosa d’altro: se stesso, una scienza, una ideologia, un gruppo. Se Dio non esiste, ogni individuo, ogni scienza, ogni gruppo può arrogarsi la pretesa di essere dio, di avere la verità e di essere la misura di tutte le cose. In una pubblicità è apparsa la scritta: «tutto è relativo, tranne me!». Se esiste una trascendenza, sono invece relativizzati tutti i poteri umani e tutte le pretese di avere l’esclusiva della verità. Non è l’oblio di Dio l’origine delle violenze e dei fanatismi? Chi sosteneva l’importanza che il preambolo del Trattato per una costituzione dell’Unione Europea avesse un riferimento a Dio o al trascendente, pensava in questa direzione: solo il riferimento a Dio può relativizzare i poteri della terra e impedire che si propongano loro come assoluti. Questa ideologia è divenuta un modo di vivere, una prassi, che troviamo presente in molti ambiti e che ha diversi volti.
Un primo ambito dove emerge la questione del relativismo è quello della morale o dell’etica. Il bene e il male sono realtà oggettive, assolute, non mutabili, oppure sono «relative» ai cambiamenti della storia, alla nostra libertà e decisione? Pensiamo al delicatissimo dibattito in corso sul tema della vita: sperimentazione su cellule staminali embrionali, clonazione, possibilità di generare embrioni ibridi o chimere, aborto, eutanasia. La vita della persona umana è un bene in se stesso, oggettivo, assoluto, non negoziabile, oppure il valore e la dignità della vita sono relativi alla libertà umana? Sono la libertà umana o le condizioni concrete di vita che possono decidere quando inizia e quando termina la dignità e il valore della vita?
Se passiamo all’ambito del vivere sociale e della politica, si pone la domanda: i diritti e i doveri che sono alla base della convivenza, hanno un fondamento oggettivo, assoluto, razionale, oppure il loro contenuto si perde nell’anarchia delle interpretazioni perché è «relativo» alle diverse religioni, culture, filosofie, ideologie, economie? Come possiamo procedere nella costruzione dell’unità europea se non abbiamo valori, diritti e principi validi per tutti i Paesi europei?
Anche la domanda sul senso dell’esistenza umana può dissolversi nel relativismo. Oggi in Europa sono nuovamente e chiaramente udibili le domande esistenziali di fondo: esiste un senso oggettivo, stabile, assoluto al vivere e alla storia, oppure non esiste «il senso della vita», ma esistono piuttosto vari, piccoli e brevi sensi, relativi alla riuscita nella vita, al piacere, alle voglie, alle emozioni, alla fortuna, al destino?
C’è un vero, un bene, un bello a cui posso affidare la mia vita in grado di rispondere al mio assoluto desiderio di vita, di felicità, di festa, di affetto e di eternità, oppure devo accontentarmi dei brevi, passeggeri, relativi, momenti di felicità e di amore che la vita può riservare?
Il dolore e la morte sono l’ultima parola per l’uomo e come tali la relativizzazione di ogni mio desiderio, in quanto mostrano il finale non senso della vita? Non dobbiamo dimenticarci che ogni anno in Europa muoiono circa 50.000 persone per suicidio e che in una decina di Paesi europei la più alta percentuale di morte dei giovani è costituita dal suicidio. Se il senso della vita è «relativo», merita ancora vivere, quando la vita mostra la sua durezza?
Il relativismo pone anche una domanda radicale al mondo del sapere e del conoscere. Pensiamo alla grande sfida nei confronti della concezione dell’uomo che viene oggi dalle neuroscienze che studiano il funzionamento del cervello umano e spiegano il cervello come un insieme di processi neuronali. In realtà non c’è nessun problema nel fatto che queste scienze spieghino in questo modo il cervello, anzi esse offrono un contributo importante per conoscere la persona umana da un punto di vista biologico. Il problema nasce quando queste scienze non accettano di essere uno dei contributi per la conoscenza della persona umana, lasciando spazio per altri ambiti del conoscere, ma pretendono di dire loro tutto sulla persona umana. In questo modo le neuroscienze diventano una neurofilosofia o anche una neuroteologia che pretende di dire la verità totale dell’uomo.
È questa neurofilosofia che, riducendo il cervello e la persona a meri processi biologici, vuole persuadere sulla visione solo naturalistica e materialistica dell’uomo, sulla non esistenza di alcun io, sulla negazione di ogni trascendenza del soggetto, sulla «misurabilità» e «manipolabilità» dell’uomo. L’uomo è una macchina che funziona così perché è fatta così. In questa visione la libertà, la colpa, la responsabilità divengono pura illusione. Un campo evidente del regno del relativismo è quello dei media. Esistono oggettivamente i fatti, la realtà, i valori, la verità, oppure i fatti, la realtà, i valori, la verità, sono relativi ai media, in quanto sono creati dai media? I media sono a servizio dei fatti, oppure i creatori dei fatti?
Il fatto che storicamente esista un legame intrinseco e inscindibile tra Europa e cristianesimo e che quindi noi abbiamo tra le mani un’eredità cristiana, mi sembra talmente chiaro e riconosciuto da non aver bisogno di una particolare ulteriore dimostrazione o testimonianza o apologia. Al riguardo esiste una sconfinata bibliografia. Senza cristianesimo non sarebbe comprensibile alcuna pagina della storia dell’Europa degli ultimi due millenni. Quale è lo stato di salute dell’eredità cristiana? Riteniamo che sia una fortuna o piuttosto una sfortuna? Abbiamo ereditato un credito o un debito? È un’eredità capace di fruttificare? È un’acqua fresca a cui attingere? È una luce che può guidare il nostro complesso cammino? È una medicina efficace per i nostri gravi malanni? È una risposta alle domande e alla ricerca degli europei di oggi? L’eredità è realmente una possibilità capace di fare la storia oppure è un talento che possiamo tranquillamente sotterrare o lasciar sotterrato nel suolo di un continente relativista e secolarista?
È ovvio che l’oblio dell’eredità del cristianesimo significa l’oblio della identità dell’Europa stessa, ma, se qualcuno, per assurdo, riuscisse a dimostrare che le radici cristiane non sono storicamente così determinanti per l’identità dell’Europa, non sarebbe ora il momento di piantare queste radici, perché il cristianesimo è una pianta «buona», «attesa» e «promettente» per l’Europa?
tratto da "L'Osservatore Romano", 24 febbraio 2011