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INCHIESTA SU MANZONI / 2

E se il manoscritto fosse stato davvero ritrovato?

Sulla scia di altri autori, anche Manzoni finse di aver già trovato i Promessi sposi in "un vecchio autografo dilavato" risalente al Seicento. Ne parla in una lettera (la cui autenticità è stata messa in dubbio), che dà il via a nuove ipotesi sulla genesi del capolavoro manzoniano.

Cultura 30_01_2023

Nel 1760 James Macpherson pubblicò i Frammenti dell’antica poesia tradotti dal gaelico, due anni più tardi i poemi Fingal e poi Temora (1763). Sosteneva di avere trovato antichi manoscritti che tramandavano i versi dell’antico poeta scozzese Ossian. L’opera definitiva I canti di Ossian, costituita da ventidue testi, fu edita nel 1773.

In Europa in pochi anni si diffuse la moda dell’ossianismo. I versi di questo antico poeta delle Highlands furono tradotti in tante lingue. In Italia fu Melchiorre Cesarotti (1730-1808) a tradurre i versi col titolo Poesie di Ossian figlio di Fingal, antico poeta celtico (nel 1763, nel 1772 e infine nel 1801). Anche nel nostro Paese molti furono catturati dalla passione per i versi dell’Omero nordico del III secolo d. C.

Foscolo aveva addirittura additato quel poeta come uno dei maggiori della storia nella lettera del 14 maggio 1798 nella prima versione dell’Ortis (mai autorizzata da lui e terminata dallo scrittore bolognese Angelo Sassoli) che comparve nel 1799 col titolo Vera storia di due amanti infelici ossia Ultime lettere di Jacopo Ortis. Nell’edizione del 1802 (la prima autorizzata da Foscolo) Ossian venne sostituito da Shakespeare, ma la presenza del nome immaginario dell’Omero nordico testimonia la grandezza che venne a lui attribuita. James Macpherson morì nel 1796.   

I canti di Ossian furono una delle falsificazioni letterarie meglio riuscite nella storia. Lo scrittore si era in realtà avvalso di alcuni canti popolari per creare un’epica nordica attribuita al III secolo d. C. Non era, però, la prima volta che uno scrittore aveva fatto ricorso all’escamotage della traduzione di un manoscritto ritrovato. Anche il primo romanzo moderno, il Don Quijote, appare come traduzione del manoscritto dello storico Cide Hamete Benengeli.

Sulla scia di Macpherson e di Cervantes anche Manzoni, fingendo di aver ritrovato un manoscritto, aprì il romanzo con poche pagine non trascritte nell’uso moderno, ma lasciate nella lingua del Seicento. Manzoni avrebbe depurato un manoscritto del Seicento dalle scorie linguistiche antiquate e da immagini ormai obsolete. Dopo aver iniziato a trascrivere il testo nell’italiano antiquato del Seicento Manzoni si chiedeva nell’introduzione: «Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?».

Leggendo l’epistolario di Manzoni, pubblicato per conto della casa editrice Adelphi, sorge però una domanda: se il manoscritto fosse stato davvero ritrovato? Infatti, una lettera indirizzata all’amico Tommaso Grossi da Brusuglio recita:

 Amico carissimo,
ho preso, non ha guari, una grande e grave risoluzione: voglio scrivere un romanzo. Non avrei mai pensato di divenir romanziere, giacché le mie facoltà intellettuali son troppo limitate e debili: forse tenterò indarno l’arringo in tal genere di letteratura. Senonché mi venne fatto di rinvenire un vecchio autografo dilavato. Lettolo e trovata bella la storia racchiusavi, m’era sorta l’idea di darlo alla luce: ma com’è scorretto! Solecismi e idiotismi lombardi e spagnuoli, goffe declamazioni, sgangherati periodoni: l’autore si mostra infatti un povero secentista educato alla scuola sguaiata di quel secolo. […]  Pensai allora di prender dal manoscritto la serie de’ fatti, e ripudiando il suo stile, surrogargliene un altro più forbito e moderno.

Manzoni conclude la lettera affermando che la riscrittura comporterà molta fatica, spera che i risultati siano soddisfacenti e promette di mostrare lo scritto all’amico quando si recherà a Brusuglio.

Non ci è rimasto l’autografo della lettera, che è stata pubblicata sulla rivista «La scintilla» nel 1888. Una nota redazionale dichiara che il testo è senz’ombra di dubbio di Manzoni, come indica il raffronto con altri autografi del romanziere, e tende a datarlo al 1821 (ovvero al principio della stesura del Fermo e Lucia). La lettera proviene dalla collezione di Angelo Maura di Padova.

Dinanzi a questa lettera possono essere avanzate diverse ipotesi. La prima è che il romanziere abbia raccontato del manoscritto all’amico Tommaso Grossi per indurlo a recarsi quanto prima a Brusuglio. La seconda è che la lettera sia una falsificazione, tesi prospettata da Attilio Momigliano, oltre che da Dante Isella: la forma Maso («Addio caro Maso») al posto di Tommaso (assai insolita) sarebbe uno degli elementi di prova. Potremmo anche supporre che Manzoni, terminata la stesura del romanzo l’11 marzo 1823, stia pensando ad una prefazione nella quale spiegare le ragioni per cui abbia iniziato a scrivere un romanzo.

E se, invece, Manzoni avesse davvero trovato una storia del Seicento traendone spunto per la realizzazione dei Promessi sposi? Se così fosse, si aprirebbero interessanti ricerche: dov’è finita la presunta lettera autografa di Manzoni? Dove potrebbe trovarsi il manoscritto e qual è il suo reale contenuto? Ovvero quanto è effettivamente già presente nello scritto del secentista e quanto è, invece, totalmente di invenzione manzoniana?

Potremmo anche supporre che Manzoni abbia trovato nella villa di Lecco, che era anticamente di proprietà di Giacomo Maria Manzoni, una storia del Seicento che abbia attirato la sua attenzione.  Oppure potremmo pensare anche ad un’altra ipotesi estremamente affascinante, ovvero che l’idea della stesura de I promessi sposi scaturisca dall’approfondimento delle origini della propria famiglia.

La scoperta delle origini infami della sua famiglia potrebbe essere la scaturigine della composizione del romanzo e della scelta del Seicento come epoca congeniale all’ambientazione della storia. E allora potrebbe sorgere una domanda: se il manoscritto ritrovato alludesse in realtà ai documenti relativi alla storia dell’antenato lecchese?

Sono solo supposizioni non dimostrabili o anche realtà? Forse queste domande possono offrire un terreno nuovo d’indagine sul capolavoro manzoniano.