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IL DOCUMENTO

E adesso fateci leggere l'Accordo Cina-Santa Sede

La lettera del cardinale Re ai confratelli del sacro Collegio, tesa a censurare il cardinale Zen sulla questione della Chiesa in Cina, contiene affermazioni clamorose riguardo i cambiamenti dottrinali che l'Accordo tra Santa Sede e Cina implica. E non solo per la  Cina, ma per tutta la Chiesa. Ecco perché anzitutto i cardinali dovrebbero chiedere con forza la rivelazione dei contenuti dell'Accordo.
- DOSSIER CHIESA IN CINA

Editoriali 01_03_2020 English Español
Il cardinale Zen

È praticamente impossibile sopravvalutare l’importanza e la gravità della lettera che il Decano del Collegio cardinalizio, Giovanni Battista Re, ha inviato a tutti i suoi confratelli cardinali per censurare il cardinale Zen. Abbiamo già esaminato ieri i passaggi principali della lettera (qui), tesa a dimostrare la necessità e la bontà dell’Accordo provvisorio con il governo cinese riguardo la nomina dei vescovi. E abbiamo anche esaminato a fondo l’allarmante riferimento alla possibile legittimità delle Chiese indipendenti (qui).

Si potrebbe continuare mettendo in risalto come sia la prima volta che dal vertice si invita sostanzialmente tutti i cardinali a isolare un loro confratello; in pratica il “metodo cinese” fa scuola anche in Vaticano: chi non si adegua alla linea del Partito, chi ne frena la spinta verso il luminoso futuro, o è corrotto o è un borghese controrivoluzionario. Il cardinale Zen sta ritardando «le magnifiche sorti e progressive» del cattolicesimo cinese. Cambiano le definizioni ma la sostanza è quella.

Si potrebbe ulteriormente sottolineare la grave mistificazione nell’attribuire a san Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI la paternità morale (e nel caso di Benedetto XVI anche quella concreta) dell’Accordo Cina-Santa Sede firmato il 22 settembre 2018. Anche questo è diventato un metodo di governo: ogni volta che in questo Pontificato si prendono decisioni controverse e contestate, ecco che la linea di difesa è inesorabilmente la presunta continuità con i suoi predecessori. Anche quando – vedi l’Istituto Giovanni Paolo II per il Matrimonio e la Famiglia e la Pontificia Accademia per la Vita – si decide di smantellare quello che san Giovanni Paolo II aveva costruito.

L’arcivescovo Carlo Maria Viganò, nella lettera di solidarietà al cardinale Zen diffusa ieri (qui), parla di «menzogna in Vaticano (…) eretta a sistema». Espressione forte, ma aspettatevi nei prossimi giorni un dotto articolo di Andrea Tornielli, il grande capo della comunicazione in Vaticano, che ci spiegherà come e perché papa Francesco in Cina non fa altro che applicare quanto già stabilito dai suoi predecessori. Contro ogni evidenza, tanto è vero che lo stesso cardinale Re a un certo punto non può fare a meno di parlare di «cambiamento epocale» in atto.

Però oggi diventa urgente affrontare un’altra questione: il contenuto dell’Accordo Cina-Santa Sede. Il cardinale Re ne parla come se fosse cosa nota e ovvia, ma così non è. Il contenuto è segreto. L’unico dettaglio che viene rivelato dal decano del sacro Collegio è che esso «prevede l’intervento dell’autorità del Papa nel processo di nomina dei Vescovi in Cina». L’affermazione è quantomai ambigua, detta così è il minimo sindacale: ci mancherebbe pure che il Papa non intervenisse per niente nella nomina dei vescovi.

Ma la domanda è: a che punto interviene il Papa? C’è una bella differenza tra il caso di un'Associazione patriottica (che risponde al Partito comunista) che sceglie i vescovi, con il Papa a fare da notaio o al massimo a contrastare le nomine più indigeribili; e il caso di un Papa che nomina i vescovi cercando di evitare i nomi più sgraditi a Pechino. Finora abbiamo visto soltanto l’accettazione vaticana di vescovi illegittimi e molto discutibili e la rimozione di vescovi legittimi. Il caso poi di Hong Kong con la prossima nomina, che abbiamo preannunciato (qui), di un vescovo pro-Pechino, fa temere il peggio. È una questione fondamentale per i cattolici cinesi, ma anche per tutta la Chiesa universale.

È un esempio, ma che dice la necessità impellente di rendere pubblico il contenuto dell’Accordo. Non è tollerabile che dopo un anno e mezzo in cui si è vista aumentare la pressione del Partito sui vescovi, in cui la persecuzione dei cattolici si è intensificata, in cui la Santa Sede ha chiuso un occhio (anzi tutti e due) sulla violenza del regime, si continui a tenere nascosto il contenuto dell’Accordo. A maggior ragione ora che il cardinale Re ha tirato in ballo Benedetto XVI attribuendo a lui la paternità di questo testo. Peraltro, come si fa a lamentarsi dei “ritardi” in Cina nel recepire l’Accordo se i cattolici cinesi non sanno neanche cosa prevede? Si chiede l’obbedienza a norme che non si conoscono, è semplice follia. I cardinali che hanno ricevuto la lettera del cardinale Re avrebbero il dovere di esigere la rivelazione del contenuto dell’Accordo.

La preoccupazione per il destino dei cattolici in Cina, e il rispetto della loro dignità, sarebbe già motivo più che sufficiente per una richiesta esplicita e decisa da parte dei cardinali. Ma la lettera del cardinale Re introduce un ulteriore punto che riguarda tutta la Chiesa, non solo quella cinese. E i cardinali anzitutto – e poi anche tutti i fedeli – non possono fare finta di nulla: dice Re – riferendosi alla legittimazione delle “Chiese indipendenti” - che siamo davanti a un «cambiamento epocale» che ha conseguenze dottrinali e pratiche, non solo per la Cina. In sintesi, l’Accordo con il governo cinese comporta cambiamenti dottrinali che riguardano tutta la Chiesa.

E i cardinali dovrebbero tacere? E i vescovi? E tutti i fedeli? Qui si annuncia un cambiamento anche nella concezione della Chiesa e si fa finta di nulla? È evidente che siamo ben oltre una questione personale contro il cardinale Zen: l’eliminazione di Zen dalla scena è funzionale a stravolgimenti dell’intera Chiesa. Non è possibile tacere: è dovere di tutti chiedere a gran voce che il contenuto dell’Accordo con la Cina venga rivelato.

Peraltro quali sarebbero questi cambiamenti dottrinali? Il cardinale Re non lo spiega chiaramente, ma certo riguardano almeno le Chiese nazionali. E qui emerge ancora più precisa la radicale differenza tra questo pontificato e quello di Benedetto XVI. Si può pensare che la possibile legittimazione delle “Chiese indipendenti” sia una evoluzione nei poteri attribuiti alle Conferenze episcopali nazionali, che papa Francesco vorrebbe incrementare. Lo ha detto esplicitamente nella Evangelii Gaudium (2013) quando auspica «uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzione concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale» (no. 32).

Si tratta di una concezione opposta a quella di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il primo, nel Motu Proprio Apostolos Suos del 1998 riguardante proprio «la natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali», vuole evitare che le conferenze episcopali emettano dichiarazioni dottrinali in contrasto tra loro e con il magistero universale della Chiesa; o che si creino separazioni tra Chiese nazionali e Roma.

Il secondo, quando era ancora cardinale, ebbe a chiarire nel famoso libro-intervista con Vittorio Messori “Rapporto sulla fede” (1985), che «non dobbiamo dimenticare che le conferenze episcopali non hanno una base teologica, non fanno parte della struttura ineliminabile della Chiesa così come è voluta da Cristo; hanno soltanto una funzione pratica, concreta».

Qualunque sia il significato della legittimazione delle Chiese indipendenti siamo dunque di fronte a concezioni diametralmente opposte, che richiedono un immediato chiarimento. A partire proprio dalla rivelazione del contenuto dell’Accordo.