Doppio cognome, un colpo in più all'unità familiare
Alla Camera è passata la riforma del doppio cognome. Una legge molto complessa che prevede ben sette casi distinti in cui, a scegliere il cognome del figlio, o dargli sia quello materno che quello paterno, saranno i genitori, che siano o meno d'accordo fra loro. E scompare, anche nominalmente, l'unità familiare.
Qualche mese fa, in apertura del Concistoro preparatorio del Sinodo sulla famiglia, Papa Francesco sottolineava quanto la famiglia sia oggi “disprezzata” e “maltrattata”.
Nel nostro ordinamento gli esempi di disprezzo e di maltrattamento, quindi di concreta quotidiana discriminazione, non mancano: ogni qual volta viene introdotta una agevolazione fiscale (rottamazioni, imposte di successione, ristrutturazioni edilizie), essa viene riconosciuta senza limite di reddito, ma i sostegni alla maternità o le detrazioni fiscali per i figli a carico sono corrisposti in relazione al reddito. La vicenda degli 80 euro ha mostrato che due coniugi senza figli con un reddito annuo di 24.000 euro ciascuno hanno diritto alla piccola somma mensile aggiuntiva, a differenza di una famiglia di cinque persone nella quale lavora soltanto un padre col reddito netto annuo di 30.000 euro (e quindi con quello pro capite di 6.000 euro). Esistono i permessi sindacali ma non esistono i permessi per parlare con gli insegnanti dei figli. È impossibile per una giovane coppia di italiani con redditi annui complessivi anche modesti iscrivere il figlio a un asilo nido pubblico, a fronte della precedenza riservata a chi risulta senza reddito, pur lavorando in nero.
Il Parlamento italiano avrebbe di che riempire le giornate se mettesse a tema la rimozione delle quotidiane discriminazioni che affliggono la famiglia. Invece ne individua e ne affronta ulteriori: sospesa a luglio la discussione nell’aula della Camera della legge sul doppio cognome, essa l’ha ripresa senza ritardo a ferie concluse e qualche ora fa, nella serata di mercoledì, l’ha approvata con largo margine. Contrari soltanto Ncd, Lega, Fratelli d’Italia e Gruppo per l’Italia.
Non è solo la questione della priorità a far sollevare riserve. Vi è pure – direi soprattutto – il merito. Il meccanismo sul cognome individuato dalla legge appena passata a Montecitorio distingue varie ipotesi:
ipotesi n. 1 - genitori coniugati e concordi. Possono decidere di dare al figlio o il cognome del padre o quello della madre, o entrambi decidendo l’ordine;
ipotesi n. 2 - genitori coniugati e discordi: l’ordine dei cognomi è attribuito in ordine alfabetico. Il che esclude che il dissenso verta sulla duplicità dei cognomi, e dà per scontato che, anche se uno dei coniugi preferisce che ci sia un solo cognome, prevale comunque la regola del due (poi l’alfabeto stabilirà la precedenza). Poiché ciò che non è scritto è scontato fino a un certo punto, attendiamoci un avvio di contenzioso da parte di chi desidera che il proprio figlio abbia un solo cognome. La legge dice pure che i figli seguenti al primo ricevono il o i cognomi scelti per il primo; ma se i genitori ci ripensano? Non è discriminatorio precludere loro un ordine differente? Vi è nuova materia per andare dal giudice, e magari pure alla Corte costituzionale (con buona pace delle misure per lo snellimento delle liti, in discussione al Senato);
ipotesi n. 3 – genitori non coniugati e concordi. Valgono le regole n. 1 e n. 2;
ipotesi n. 4 – genitori non coniugati con uno solo che riconosce il figlio. C’è solo il suo cognome;
ipotesi n. 5 - genitori non coniugati con uno solo che riconosce il figlio e l’altro che ci ripensa e lo riconosce in un secondo momento. Il secondo cognome viene aggiunto, a condizione che il primo genitore acconsenta e che concordi pure il figlio che abbia compiuto 14 anni;
ipotesi n. 6 – uno dei due genitori che riconosce ha un doppio cognome. Sceglie quale dei due dare al figlio. Perché la confusione sia totale una norma transitoria incide sul pregresso:
ipotesi n. 7 – il figlio maggiorenne che ha avuto un solo cognome alla nascita in base alla norme in vigore finora, rimedia andando al Comune e dichiarando di aggiungere quello dell’altro genitore. Resta da capire se i fratelli, man mano che diventeranno maggiorenni, riceveranno automaticamente il doppio cognome, come è per la regola generale, o se avranno anche loro possibilità di scelta, secondo logica antidiscriminatoria: se la legge tace, lo stabiliranno i giudici, a seguito di ulteriori contenziosi. Con la possibile conseguenza di figli degli stessi genitori che, cresciuti, recheranno cognomi (in parte) differenti. La diversità di cognomi sarà invece probabile per cugini di ramo paterno, dal momento che il figlio cui è stato attribuito il doppio cognome può trasmetterne al proprio figlio solo uno, a scelta, ovviamente prescindendo dalle opzioni del proprio fratello.
Si dirà: perché enfatizzare tanto, quando ordinamenti di Nazioni civili – pensiamo a quelle di ceppo iberico o lusitano – hanno da secoli il doppio cognome? Intanto perché quel sistema è meno farraginoso di quello che si vorrebbe introdurre in Italia; e poi perché in queste materie la tradizione e il contesto hanno un peso, trascurando il quale si crea qualche squilibrio. Sempre che quelli siano modelli da imitare: ci sarà qualche ragione se calciatori famosi con cognomi interminabili sentono la necessità di essere conosciuti con un solo nome brevissimo! Si aggiungerà: perché drammatizzare, quando sono in discussione aggressioni più virulente nei confronti della famiglia, dal d.d.l. sulle unioni civili al divorzio sprint? È vero, il Parlamento si accinge a fare di peggio; ma non è una ragione valida per concordare con quanto comunque è negativo.
Infine, l’Europa. Il 7 gennaio la Cedu – la Corte europea dei diritti dell’uomo – ha dato torto all’Italia nella controversia sul cognome dei figli avviata dai due coniugi che, pur in presenza dell’autorizzazione loro conferita dal prefetto per dare ai figli il doppio cognome, intendevano attribuire loro non il cognome di entrambi, bensì esclusivamente quello della madre. La Cedu aveva richiamato due norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo a sostegno della propria decisione: l’articolo 14, che vieta le discriminazioni – in tal caso fondate sul sesso –, e l’articolo 8, che vieta l’ingerenza dell’autorità pubblica nelle decisioni che appartengono alla sfera privata della famiglia. Nel caso concreto, la discriminazione era consistita, secondo la Corte, nell’essersi lo Stato italiano intromesso nella scelta del cognome dei figli, che appartiene alla libertà dei coniugi. La Corte ha conferito quindi una prospettiva privatistica a quel dato individuante e nominalmente unificante una famiglia e chi ne fa parte rappresentato dal cognome: e ha negato a esso qualsiasi pur tenue rilievo pubblicistico. Ecco, oggi in Italia la sintonia con la Corte europea viene espressa da un ordinamento che al Senato sta per approvare un decreto che permette di sciogliere il matrimonio andando dall’avvocato invece che dal giudice e alla Camera vara il doppio cognome. La nominale unità familiare è un orpello della tradizione e, in quanto indice di discriminazione, da cancellare, viaggiando a larghi passi verso la privatizzazione dei rapporti infrafamiliari. Le famiglie italiane e chi dovrebbe tutelarle non hanno nulla da dire?