Dopo il divorzio breve, il matrimonio a tutti i costi
La sentenza della Corte di Cassazione del 17 luglio scorso contro la nullità di un matrimonio sancito da un tribunale ecclesiastico, non mira affatto a difendere il diritto dei più deboli. Anzi, dietro la sentenza c'è una precisa concezione della famiglia. Dopo il divorzio breve, le nozze a tutti i costi.
Una coppia della provincia di Venezia nel 1998 si sposa e mette al mondo una bambina. Successivamente l’idillio si rompe e i due chiedono e ottengono la dichiarazione di nullità del loro vincolo matrimoniale dal Tribunale ecclesiastico del Triveneto, nullità poi confermata dal Tribunale ecclesiastico d’appello e resa esecutiva dal Supremo tribunale della Segnatura apostolica. La donna a quel punto vuole che gli effetti canonici dello scioglimento del matrimonio siano fatti valere anche per lo Stato italiano. L’ex marito si oppone e i due vanno a processo. La Corte di Appello di Venezia dà ragione alla donna e annulla il matrimonio, ma poi la vertenza approda in Cassazione.
Il 17 luglio scorso le Sezioni Unite hanno stabilito, tentando di ricomporre diverse e contrastanti pronunce della Prima sezione della Cassazione stessa, che se una coppia ha convissuto almeno tre anni dopo la celebrazione delle nozze, la sentenza ecclesiale di nullità non può essere fatta valere in sede civile (la Cassazione dà comunque torto all’ex marito perché non aveva eccepito questa motivazione in sede d’appello). Il ragionamento giuridico articolato dai giudici è il seguente: il recepimento di sentenze di altri ordinamenti giuridici può avvenire solo se queste sentenze non sono in contrasto con l’ordine pubblico. Ora, per i giudici della Cassazione mandare all’aria una convivenza che per così tanti anni si è protratta (nel caso specifico gli anni sono stati undici) potrebbe ripercuotersi negativamente sull’ordine pubblico. Infatti, la coppia, con comportamento concludente, avrebbe accettato quella molteplicità di “diritti inviolabili”, di “doveri inderogabili” e di “aspettative legittime” e di “legittimi affidamenti” presenti nella “convivenza come coniugi”.
Per dirla in breve: il matrimonio è un valore per l’ordine pubblico e anche se nullo il vincolo matrimoniale continua a persistere se i due hanno convissuto per qualche tempo e dunque occorre tutelare questo vincolo per il bene comune. Ovviamente, se entrambe le parti sono d’accordo nel far valere la nullità in sede civile, il giudice italiano potrà dichiarare la separazione e poi il divorzio. Ma perché proprio tre anni per provare che il matrimonio c’è ed è stabile? Il riferimento è alla legge sulle adozioni dell’83 la quale prevede che i coniugi possano fare richiesta di adozione se sono sposati almeno da tre anni. “Il criterio dei tre anni successivi alle nozze” spiegano i giudici “si configura come requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale”.
E’ bene sapere che la dichiarazione di nullità canonica era stata pronunciata “per esclusione dell’indissolubilità del vincolo da parte della donna”, la quale si era sempre dichiarata atea e aveva abbracciato i precetti della Chiesa solo formalmente. Quindi la nullità riguardava l’esclusione di una proprietà del matrimonio viziando così il consenso matrimoniale, punto genetico da cui nasce il rapporto di coniugio. I giudici quindi qualificano il matrimonio più come fatto sociale che come atto giuridico. Poco importa che il consenso (atto attraverso il quale viene ad esistenza il matrimonio) sia stato prestato in modo invalido, ciò che è importante è l’essere vissuti insieme, aver messo al mondo una bambina, aver condiviso gioie e dolori, essersi assunti alcuni particolari obblighi. O, per dirla con la Corte Costituzionale, il matrimonio è solo e soltanto un “vincolo rafforzato da un periodo di esperienza matrimoniale in cui sia ‘perdurante’ la volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri” (C. Cost. n. 281/1994).
Tutto questo è “matrimonio” per i magistrati, non quelle quattro parole pronunciate in chiesa il giorno delle nozze. Il presidente emerito della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli così commenta dalle colonne di Avvenire: “Lo spirito del diritto canonico è l’effettivo accertamento della capacità e della volontà genuina delle parti di sposarsi. Il matrimonio nasce e ha alla sua base il consenso: nel profilo canonistico prevale la verità delle cose. In quello statualistico, invece, trionfa la socialità, quello che accade, il fatto che si determina. Ora la Cassazione ci sta dicendo che anche se esiste quel vizio di volontà, ciò che rende valido un matrimonio è l’essere vissuti come coniugi per un certo arco di tempo (e per la precisione 3 anni). La convivenza tra coniugi diventa un valore irrinunciabile legittimando quello che potremmo chiamare un ‘matrimonio di fatto’ e ha tale grado di rilievo e tutela da impedire addirittura che si accerti e dichiari la mancanza di capacità e volontà al momento delle nozze, cioè l’atto consensuale”.
A guardar bene, i giudici della Cassazione hanno assorbito benissimo gli umori collettivi sul matrimonio. Per l’italiano medio la cosa importante del rapporto a due è l’amore, cioè lo “stare bene insieme”. Se c’è questo, via libera alla convivenza. Di converso, quando l’amore si spegnerà, anche la convivenza finirà. Quindi ciò che assume un peso specifico rilevante nelle relazioni affettive sono la sostanza delle cose, non tanto le parole e le promesse solenni. E’ mangiare e dormire assieme, andare in vacanza assieme, dividersi le spese di casa, mettere al mondo dei figli ed educarli, fare progetti a due che creano il rapporto di coppia, non le chiacchiere. E’ il fare che produce il rapporto e che testimonia la presenza dell’affetto per l’altro persona.
Questa prospettiva è così convincente che infatti i giovani, sempre più frequentemente, non capiscono perché occorre sposarsi. Se l’importante è volersi bene e vivere assieme, queste due cose possono esserci anche nel rapporto di convivenza, senza bisogno di sposarsi. Il matrimonio appare così essere solo un vuoto involucro formale. Il consenso, un omaggio per dovere di etichetta alla tradizione. La celebrazione, un’enfasi immotivata per un gesto che è solo di prassi. La Cassazione segue questo orientamento storicista ed empirico e considera il matrimonio solo un fatto sociale impregnato di azioni e situazioni concrete. Il resto è burocrazia.
Invece il matrimonio, ce lo ricorda la Chiesa, è prima di tutto un atto personalissimo della volontà espresso tramite il consenso. Voler amare per sempre solo l’altra persona e i figli che verranno, questo è il matrimonio. Se il matrimonio è decidere di donarsi all’altro totalmente, poco importa (per mera ipotesi) che la convivenza sia durata un secondo o ottant’anni, poco importa che, per dirla come i giudici, siano seguite significative “esperienze” proprie del matrimonio. Di contro se invece accertiamo, come nel caso di specie hanno fatto i tribunali ecclesiastici, che quella volontà di donazione indissolubile ed esclusiva non c’è stata, non c’è nulla da fare: migliaia di pranzi consumati assieme e di notti condivise nello stesso letto, decine di figli nati dalla convivenza, infiniti progetti realizzati a due, non potranno far venire a esistenza ciò che in radice è stato escluso da uno o entrambi i coniugi. E’ la volontà delle persone attestata da un atto giuridico che fa venire a esistenza il matrimonio, non la prassi, i gesti, seppur importantissimi nella vita a due.
Curiosamente e drammaticamente il principio espresso dei giudici poi condanna quelle persone che non hanno espresso una valida volontà di coniugio a rimanere sposati civilmente anche se non lo vogliono. Oppure le costringono ad intraprendere anche in sede civile un secondo lungo iter processuale al fine di vedersi riconosciuto lo scioglimento del vincolo matrimoniale, già acclarato in sede canonica. E dopo il divorzio breve, ecco il matrimonio a tutti i costi.