Dopo 21 anni una giustizia beffa per il Rwanda
Il 14 dicembre il Tribunale penale internazionale per il Rwanda, Tpir, ha pronunciato la sua ultima sentenza e ha chiuso i battenti dopo 21 anni. Era stato istituito dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nel novembre del 1994 per perseguire i responsabili del genocidio e delle altre gravi violazioni dei diritti umani commessi in Rwanda.
Il 14 dicembre il Tribunale penale internazionale per il Rwanda, Tpir, ha pronunciato la sua ultima sentenza e ha chiuso i battenti dopo 21 anni. Era stato istituito dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nel novembre del 1994 per perseguire i responsabili del genocidio e delle altre gravi violazioni dei diritti umani commessi in Rwanda e negli Stati confinanti tra il 1 gennaio e il 31 dicembre 1994: in particolare, nei 100 giorni a partire dal 7 aprile 1994 durante i quali gli Hutu, nel tentativo di sterminare la minoranza Tutsi, hanno ucciso da 800.000 a un milione di persone, inclusi molti Hutu contrari al genocidio.
Il massacro era terminato con la conquista della capitale Kigali da parte dell’esercito Tutsi guidato da Paul Kagame, formato da esuli rifugiatisi nel vicino Uganda negli anni precedenti per sottrarsi alla persecuzione da parte degli Hutu, al potere da quando il paese aveva ottenuto l’indipendenza nel 1962. Fu subito chiaro che per dare un’opportunità alla pace era urgente fare giustizia, individuare i principali responsabili del genocidio e punirli. L’intero apparato giudiziario rwandese era decimato e comunque il clima nel paese era estremamente teso e avrebbe continuato a esserlo a lungo. Si decise quindi di istituire un tribunale internazionale con sede all’estero e la scelta cadde su Arusha, in Tanzania.
Il Tpir è stato il primo tribunale nella storia a giudicare persone responsabili di genocidio e a riconoscere lo stupro come mezzo di genocidio. Inoltre è stato il primo tribunale internazionale a condannare degli operatori dei mass media per aver mandato in onda trasmissioni che istigavano al genocidio. In questi giorni si è voluto evidenziare l’importante ruolo svolto dal Tpir nel contribuire alla creazione di un sistema internazionale di giustizia criminale e nel produrre una consistente giurisprudenza in materia di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
Le sentenze emesse sono un «potente deterrente per chi volesse commettere analoghi crimini in futuro», ha detto il presidente del Tpir Judge Vagn Joensen presentando nei giorni scorsi il suo rapporto finale al Consiglio di sicurezza dell’Onu, «dimostrano che chi commette genocidio o altre atrocità non resterà più impunito, a prescindere dal suo status e dalle cariche che ricopre». Vagn Joensen si riferisce al fatto che tra le persone giudicate dal Tpir in questi anni figurano personalità politiche, uomini d’affari, alti esponenti dell’esercito e del governo, direttori di mass media e leader religiosi.
Per la verità, per come vanno le cose, non sembrebbe che la funzione di deterrenza del Tpir stia dando grandi risultati. Da molti anni ormai, d’altra parte, le attività del tribunale non fanno più notizia e gran parte dell’opinione pubblica mondiale se ne disinteressa. È passato troppo tempo dal genocidio. Di sicuro il tribunale ha mancato l’obiettivo di una giustizia rapida, ma non solo. Entrato in funzione nel 1995, ha pronunciato la sua prima sentenza quattro anni dopo la fine dei massacri con la condanna di un ex sindaco, Jean-Paul Akayesu, giudicato colpevole di nove reati di genocidio e crimini contro l’umanità. In 21 anni, ha poi incriminato solo 93 persone: di queste ne ha condannate 61, ne ha assolte 14, ne ha deferite dieci ad altre giurisdizioni nazionali.
Tre delle persone incriminate sono morte prima o durante il processo e tre sono state deferite al Meccanismo delle Nazioni Unite per i tribunali penali internazionali. Per finire, le incriminazioni di due imputati sono state ritirate prima del processo. In tutto sono stati ascoltati più di 3.000 testimoni, per un totale di 5.800 giorni di procedimenti: al considerevole costo di circa due milardi di dollari.
Un motivo per cui le spese sono lievitate a tal punto, spiega Tim Gallimore, ex portavoce del presidente del Tpir, è che si è deciso di stabilire la sede del tribunale all’estero, ma con gli uffici nella capitale del Rwanda Kigali e le corti d’appello in Olanda, all’Aia. Inoltre il Tpir ha lavorato in tre lingue: inglese, francese e kinyarwanda. “Nessuno al mondo potrebbe valutare positivo il bilancio del Tpir considerando il rapporto tra i costi sostenuti e il numero di persone giudicate”, afferma Gallimore che avanza altre critiche, ancora più gravi, riguardanti il modo in cui la giustizia è stata amministrata: in particolare, tutti i procedimenti abbandonati e i prigionieri rilasciati nonostante la gravità dei capi d’accusa contestati.
In realtà la quasi totalità delle persone accusate di coinvolgimento nel genocidio – circa 130.000, detenute per anni in condizioni spaventose – sono state giudicate in Rwanda, da 8.000 tribunali popolari “gacaca”, gli organi di giustizia tradizionalmente affidati ai capifamiglia. Per molti questi tribunali, attivi tra il 2005 e il 2012, hanno rappresentato un’occasione di vendetta personale: ed era inevitabile dato che tutti i rwandesi sopravvissuti erano in qualche misura coinvolti nel genocidio. D’altra parte, come era nelle intenzioni, hanno svolto un ruolo – del tutto assente nel Tpir – nella ricostruzione del tessuto sociale compromesso creando occasioni di confronto, pentimento e perdono, in funzione di una riconciliazione tra vittime e carnefici, Tutsi e Hutu.