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RUSSIA

Doping, quando è la politica che droga la competizione

L'agenzia mondiale contro il doping (Wada) propone di sospendere la Russia dalle prossime competizioni mondiali: troppo doping, un caso che coinvolge anche apparati di Stato. Ma chi scaglia la prima pietra, la Iaaf, è essa stessa nel mirino per corruzione, coperture e forse anche ricatti. "Fanno tutti schifo"? Non proprio.

Sport 13_11_2015
Marija Savinova, oro negli 800 metri donna

Dopo la proposta formale inoltrata dall’Agenzia Mondiale contro il Doping (Wada) di sospendere la Russia dalle prossime competizioni internazionali, Olimpiadi incluse, questione è diventata politica. La Wada, più che di numerosi casi singoli, parla di “sistema”, o addirittura di “doping di Stato”. La reazione della Russia è cambiata nel corso della settimana, dal vittimismo (“perseguitano solo noi per motivi politici”) alla volontà, almeno nelle dichiarazioni, di rivedere il proprio sistema.

Il rapporto della Wada rileva come né la federazione atletica della Russia (Araf), né l’agenzia russa anti-doping (Rusada) abbiano fatto il loro dovere. Grigory Rodchenko, direttore del laboratorio di Mosca, avrebbe ricevuto lauti compensi dagli atleti, in percentuale sui loro proventi, per ripulire le analisi e distruggere i campioni. A Mosca, stando a quanto afferma un pentito, ex dipendente di Rusada, era stata creata una vera e propria struttura parallela, in cui le prove venivano falsificate. Più di 1400 campioni di urina che la Wada aveva chiesto di esaminare, sono stati deliberatamente distrutti. L’Fsb, il servizio segreto russo, sarebbe direttamente coinvolto nell’operazione, sia nei laboratori di Mosca che in quelli di Sochi, sede delle ultime olimpiadi invernali. La Rusada, inoltre, avrebbe avvertito sistematicamente gli atleti prima dei test. Avrebbe corrotto e/o minacciato gli ispettori e le loro famiglie per impedire loro di rivelare informazioni sui test con risultati compromettenti.

Vitalij Mutko, ministro dello Sport russo, ha difeso la sua posizione, prima affermando come non vi siano prove concrete, ma solo testimonianze (“la loro parola contro la nostra”), in secondo luogo come l’operazione suoni più come un boicottaggio politico e non come un’indagine imparziale: “Alcuni vogliono eliminare un concorrente diretto e alcuni lo trovano vantaggioso per danneggiare l'immagine del paese”. La versione della difesa russa, comunque, sta gradualmente cambiando. Dopo la levata di scudi iniziale e aver perorato la causa del suo paese (“il problema non è sistemico”), il presidente dell’Araf, Vadim Zelichenok, dichiara che: “Ammetteremo alcune cose, ne contesteremo altre e altre ancora sono già corrette”. Lo stesso presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di fronte ai dirigenti sportivi riuniti a Sochi, incoraggia alla collaborazione: “Sono convinto che non sia un problema del solo sport russo, ma se i nostri colleghi internazionali ci pongono delle questioni, noi dobbiamo risolverle”. Il quotidiano popolare Komsomolskaja Pravda, solitamente caratterizzato da toni patriottici, è uscito con la copertina sul caso doping e il titolo “Il nostro sport è tristemente malato”. Il grosso dei media russi attende in silenzio, come sempre accade quando i vertici dello Stato tacciono o lanciano segnali contrastanti: aspetta a schierarsi, prima vuol capire quale sia la linea ufficiale.

Il caso non riguarda la sola Russia, ma sta iniziando a intaccare la credibilità dell’atletica internazionale. La Iaaf, l’Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica, è direttamente coinvolta. Ci si chiede che ruolo abbia avuto il suo ex presidente Lamine Diack, ora indagato dalla magistratura francese perché sospettato di corruzione, di aver accettato tangenti in cambio di copertura. Secondo l’inchiesta della televisione tedesca Ard, la stessa che ha fatto luce sul doping russo, la Iaaf disporrebbe di un grande database con i risultati dei test antidoping di 1500 atleti in tutto il mondo. Quel database conterrebbe anche risultati anormali di almeno 800 atleti, di cui 150 medaglie olimpiche. Se venisse confermata la sua esistenza, sarebbe la prova che c’è una logica di ricatto. Oltre a Lamine Diack, la stampa britannica vuole anche sapere quale sia il ruolo dell’attuale presidente, Sebastian Coe, campione britannico, medaglia d’oro dei 1500 metri e d’argento per gli 800, nelle Olimpiadi di Mosca 1980. Benché sia stato appena nominato, dal 2007 Coe era vicepresidente della stessa Iaaf, cooptato da Diack. Quindi l’uomo che ora dichiara “possibile” l’esclusione della Russia dai prossimi giochi, oggi potrebbe dover rispondere a domande imbarazzanti: quanto sapeva sulla macchina del doping? E quanto non ha detto?

La morale della favola che viene tratta da media e opinionisti è mediamente populista: si va dal “così fan tutte” dei difensori della Russia, al “è tutto uno schifo” dei giustizialisti, che ricordano anche Blatter. Questo caso eclatante, invece, potrebbe aprire gli occhi su un aspetto dello sport troppo a lungo trascurato. La Russia, quando era parte dell’Urss, trattava lo sport come un interesse nazionale prioritario. Era una questione ideologica, principalmente: l’importante era vincere, non solo partecipare, perché si doveva dimostrare anche nello sport la supremazia del socialismo sul capitalismo. Che gli atleti sovietici si dopassero in laboratori di Stato era dato per scontato, così come si accettava come dato di fatto la copertura del Kgb. Lo stesso sistema era replicato anche in tutti i paesi del Patto di Varsavia. Le inchieste ci furono, sui singoli atleti, ma l’Urss non venne mai squalificata. Oggi non esiste più la necessità ideologica di primeggiare sul capitalismo, ma il sistema è stato ugualmente ereditato dalla Russia. Forse più per una questione di corruzione, che di politica nazionalista: per questo è risultato più fragile, esposto e ricattabile. Ma per alcuni paesi socialisti, come la Cina o la Corea del Nord, lo sport è ancora una questione di interesse nazionale prioritario. Nel segreto dei loro laboratori e centri sportivi, nessuno sta mettendo il naso. Nel caso della Cina, parliamo di un medagliere fra i migliori del mondo. Una vera e propria industria del podio. Dare un’occhiata a quelle realtà, non farebbe male allo sport. Perché non c’è peggior nemico dell’ingerenza della politica nelle competizioni sportive. E’ solo la politica, molto più dei soldi, che può ribaltare il principio di ogni gara, affermando con arroganza che: “l’importante è vincere”.