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IL CASO

Donne e maternità, ripensare il lavoro

La vicenda della clausola anti-maternità in Rai, fa riflettere sulle contraddizioni del nostro sistema. E spinge a intraprendere un'altra strada.

Editoriali 23_02_2012
Maternità e lavoro

Licenziare una donna solo perché rimane incinta è una vigliaccata. Per questo, la notizia circolata in questi giorni - e cioè che la Rai avrebbe in vigore delle clausole che permetterebbero di rescindere contratti professionali nel caso di donne in dolce attesa – ha destato un coro di reazioni negative e levate di scudi unanimi nel mondo dei mass media.


Trasformare una gravidanza in una causa di interruzione del rapporto professionale significa esercitare la legge del più forte, colpendo contemporaneamente due soggetti deboli, la madre e il nascituro. La donna, che quando scopre di essere diventata mamma è per certi versi più vulnerabile sotto il profilo psicologico; e il non ancora nato, che fragile lo è sotto tutti i punti di vista, e che rischia di pagare, con la vita, per colpa degli adulti.


Dunque, non si può che rallegrarsi di questa diffusa sensibilità degli opinion  leader verso il gentil sesso e nei confronti delle ragioni della maternità. A patto però di mettere alcuni puntini sulle i, per evitare di scivolare in una facile retorica. Correndo il rischio, paradossalmente, di nuocere piuttosto che giovare a madre, bambino e in generale, alle ragioni della famiglia.


La prima constatazione è che la normativa italiana sulla maternità delle lavoratrici è fra le più protettive al mondo. Questo fatto produce conseguenze contraddittorie fra loro; da un lato, protegge la singola donna che, già entrata nel mondo del lavoro come dipendente a tempo indeterminato, gode delle relative garanzie. D’altra parte, l’esistenza di queste stesse garanzie, e il fatto notorio per cui le donne giovani possono, ogni tanto, restare incinte, mette gli imprenditori in una condizione di “scelta orientata” al momento di selezionare il personale per le assunzioni. E’ inutile nascondersi – a che servirebbe? – che una gravidanza di una lavoratrice inserita in una struttura di pochi dipendenti rappresenta un vero e proprio choc economico e organizzativo per l’azienda e per il datore di lavoro. Certo, si obietterà, ciò non giustifica il licenziamento o l’aggiramento del divieto attraverso la pratica di farsi consegnare lettere di dimissioni preventivamente, per poterle usare quando fa più comodo.


Ma il problema è reale: il “costo” della maternità, fatto ricadere in modo rilevante sul singolo datore di lavoro, produce più danni che benefici all’occupazione femminile. Lo hanno dimostrato alcuni studi molto seri, ripresi da una ricercatrice originale e politicamente scorretta come Paola Liberace, nel suo “Contro gli asili nido” (Rubbettino, 2009). Inoltre, il sistema pubblico non ce la fa più a pagare questi lussi, e rende necessario sacrificare qualche cosa sulla bilancia, rendendo obbligatorio per il futuro scegliere fra mantenimento del posto di lavoro e conservazione del salario, essendo impossibile conservare entrambi.


La seconda osservazione è di natura antropologica: per quanto la società intervenga a sostegno dell’occupazione femminile, sarà bene ricordarsi sempre che la specificità dell’identità femminile non può essere azzerata, e che la gravidanza e la maternità costituiscono, all’interno di un più ampio ventaglio di “colori” della femminilità, elementi ineludibili e peculiari. Come osservava acutamente in questi giorni una giornalista di orientamento laico come Giovanna Maglie, la vita è fatta di scelte, e le scelte comportano sempre la rinuncia a fare qualcosa: chi sceglie di essere idraulico, rinuncia a essere falegname. Nel caso della maternità e del lavoro, la vita permette soluzioni intermedie, offre strade più sfumate, che consentono magari alle due vocazioni di convivere. Ma detto questo, usciamo dall’equivoco secondo cui il compito dello stato dovrebbe essere quello di costruire un sistema di welfare nel quale la maternità e la gravidanza sono a “impatto zero” sulla vita delle donne. Questa è una mistificazione, e il solo tentativo di realizzare un simile modello costituisce, fra l’altro, un colossale sperpero di risorse pubbliche e private.


Come uscirne? Ripensare il lavoro: questa è la scelta obbligata. Superare la logica della presenza e dell’orario fisso e prolungato, e stimolare nuove forme di attività professionale, che permettano soprattutto alle mamme e alle mogli di mettere figli e famiglia al posto d’onore. Ma per fare questa rivoluzione, occorre buttare nella spazzatura decenni di femminismo arrabbiato e di sindacalismo egualitario, che vuole condizioni contrattuali identiche per tutti. E occorre, al contempo, mettere in crisi gli schemi del liberalismo nichilista, che interpreta la vita come un grande coacervo di relazioni individuali regolate da contratti; logica nella quale la gravidanza è un affare privato della contraente, ed è problema suo e solo suo trovare una “soluzione”.


La terza e ultima osservazione, forse sorprendente ma necessaria, è di ordine morale: per quanto sia ingiusta una società che sfavorisce una lavoratrice incinta, e per quanto le leggi e la politica debbano battersi contro simile ingiustizia, rimane un fatto: che l’amore per la vita sbocciata nel proprio grembo non dovrebbe mai essere “barattata”, e messa in discussione, anche solo per un minuto, con un posto di lavoro e uno stipendio. Quando le madri iniziano a pensare che il lavoro sia più importante del figlio che portano nel loro ventre, allora è davvero la fine.