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NUBIFRAGI

Dissesto idrogeologico, il problema mai risolto

Il dissesto idrogeologico si presenta tutti gli anni con le prime grandi piogge autunnali. Questa volta non ha fatto morti, finora, ma in Liguria i danni sono ingenti. Come avviene tutti gli anni, il governo promette di realizzare progetti e stanziare fondi (inferiori alle necessità). Ma occorrerebbe un cambio di paradigma...

Cronaca 16_10_2016
Genova, i danni del nubifragio

L’ormai consueta stagione autunnale dei nubifragi e delle alluvioni devastanti si è inaugurata venerdì scorso in Liguria. Anche se questa volta grazie a Dio non si devono lamentare vittime, resta il fatto che dal 1970 a oggi quasi 90 persone in Liguria hanno perso la vita a causa di questi eventi, costati anche danni ingentissimi al territorio e all’economia della regione. E’ una tragica sequenza che inizia il 7-8 ottobre 1970,  quando il Bisagno, il Fereggiano e altri corsi d’acqua che attraversano la città uscirono dagli argini a Genova causando 44 morti e danni gravissimi. Seppure con un numero inferiore di vittime,  da allora ad oggi si può che non sia passato un anno senza che catastrofi del genere si siano ripetute in Liguria. Non però in Liguria soltanto, ma anche altrove. 

A grandi linee le aree colpite sono sempre le stesse, a conferma del fatto che le cosiddette catastrofi naturali in ultima analisi non sono naturali affatto. L’evento catastrofico può venire tecnicamente definito come l’esito del rapporto tra un fenomeno naturale intenso e poco frequente da una parte, e dall’altra il grado di organizzazione del territorio coinvolto. Tanto per fare un esempio, una mareggiata eccezionale, che nel golfo del Bengala provoca migliaia di vittime tra i poverissimi che vivono nelle golene del delta del Gange, nei Paesi Bassi invece è solo un bello spettacolo che attira turisti sulle dighe che difendono dal mare i Paesi Bassi. 

Le cause delle frequenti conseguenze catastrofiche delle intense piogge autunnali in Liguria, nel nordovest della Toscana e in altre aree costiere del Paese, dalle Marche alla Sicilia, sono ben note: da in lato il venir meno della cura del territorio a monte e degli alvei dei fiumi e dei torrenti, e dall’altro l’edificazione in zone a rischio. Sulle cause non c’è più nulla da scoprire: esiste al riguardo una quantità più che esauriente di rilevazioni e di studi. I guai cominciano quando dal campo delle cause si passa a quello dei rimedi. Senza dubbio gli stanziamenti sono di gran lunga inferiori alle necessità: nel bilancio preventivo che il governo si appresta ora a presentare in Parlamento per la difesa del suolo vengono stanziati 800 milioni di euro. In pratica sono briciole: a questo ritmo occorrerebbero 25 anni solo per realizzare tutti gli interventi di cui si è attualmente accertata la necessità. Se poi si considera che, a causa di una legislazione e della burocrazia che abbiamo, nel settore delle opere pubbliche lo Stato non riesce mai a spendere tutto ciò che stanzia, quei 25 anni potrebbero facilmente diventare un secolo. Per farsi un’idea dell’inefficienza dello Stato nel settore basti dire che a quattordici anni dall’entrata in vigore della “legge obiettivo”, appositamente pensata per sveltire le procedure, è stato effettivamente speso soltanto circa l’8% dei relativi stanziamenti. 

La disponibilità di adeguati stanziamenti statali è necessaria, ma ancora una volta non è sufficiente. Anche in questo campo, che a prima vista sembra così tecnico, emerge il problema chiave del nostro tempo, che è quello della persona e della sua responsabilità. Senza un ampio consenso popolare nessun governo può procedere a una spesa così ingente come quella occorrente per porre rimedio al dissesto idro-geologico, e così pure per finanziare l’adeguamento antisismico  di quel terzo del nostro territorio nazionale che è a rischio di terremoti. Si tratta di spese che, da un lato, non rispondono a bisogni immediatamente percepiti come urgenti, e che dall’altro sono così rilevanti da implicare tagli in altri settori. Senza dunque un vasto e stabile consenso popolare in pratica diventano impossibili. Decenni di storia recente del nostro Paese lo confermano. 

S’impone pertanto l’urgenza di ciò che l’attuale governo non fa, ma che peraltro non hanno fatto nemmeno i governi che l’hanno preceduto, ossia un lavoro da un lato di stimolo allo sviluppo del consenso diffuso di cui si diceva, e dall’altro di riforma radicale dell’azione amministrativa dello Stato e dell’organizzazione dei suoi uffici. Senza queste premesse andare in televisione o in Parlamento ad annunciare nuove leggi e  nuovi stanziamenti non serve a nulla. Finché le cose restano come sono si può stare certi che circa ogni anno, di sicuro in autunno ma senza escludere la primavera, quasi sempre in Liguria e nelle province toscane di Massa Carrara e di Lucca, e poi da qualche parte o nelle Marche o in Calabria o in Sicilia ci saranno esondazioni e frane con gravi danni. Un altro discorso analogo, che non possiamo fare qui, sarebbe poi quello degli incendi estivi di boschi in Sicilia e in Sardegna; e in genere delle conseguenze nefaste del venir meno quasi  e ovunque, salvo che nel Nordest, della cultura forestale. Con il conseguente venir meno di un sano equilibrio tra boschi e pascoli, tra agricoltura e zootecnia, tra pastorizia e animali selvatici. D’altra parte se è vero come è vero che alla radice del problema ci sono la persona e la sua responsabilità, da ciò consegue che non basta un governo, quale che esso sia, a cambiare le cose.