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EDITORIALE

Disperati del Mediterraneo: come aiutarli a terra

Le ultime tragedie del mare riportano alla luce il problema dei disperati del Mediterraneo che continuano a cercare di raggiungere le nostre coste. Ma è inutile sprecare risorse in una soluzione marittima, come Mare Nostrum. Il problema va risolto, semmai, a terra: in Libia. 

Editoriali 14_02_2015
Emigranti nel Sahara

"Dobbiamo risolvere il problema della Libia se vogliamo evitare che il Mediterraneo diventi un cimitero”, ha detto il premier Matteo Renzi commentando l’altro giorno a Bruxelles, dove si trovava per un vertice del Partito socialista europeo, la recente ecatombe di migranti nel Canale di Sicilia. Non si può che essere d’accordo con questa affermazione con la quale un governo di Roma sembra finalmente mettersi sulla strada giusta senza più lasciarsi rinchiudere - come tutti quelli che l’hanno preceduto - nel ristretto perimetro di luoghi comuni in cui lo confinano i telegiornali. Speriamo a questo punto che però alle parole seguano i fatti.

Secondo dati diffusi nello scorso ottobre dall’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati (Unhcr/Acnur), nei nove mesi precedenti oltre 165 mila “migranti irregolari” si sono messi in mare per raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo (in tutto l’anno precedente erano stati solo 60 mila circa). Di questi la massima parte, oltre 140 mila, si sono diretti verso coste italiane. Nell’insieme e nel corso dell’intero 2014, sempre secondo  l’Unhcr/Acnur, di questi migranti  oltre 3 mila risultano morti o dispersi, cinque volte di più che nell’anno precedente.  

Il viaggio via mare di questi disperati dalle coste libiche (ma non solo) a Lampedusa e alla Sicilia è, però, soltanto l’ultima tappa di un itinerario che passa attraverso diversi Paesi e che dura parecchi mesi se non anche talvolta degli anni. Pertanto non ha senso alcuno concentrare tutta l’attenzione su quest’ultima tappa lasciandosi totalmente condizionare, dicevamo, dalle esigenze dei telegiornali per i quali è tecnicamente molto comodo concentrarsi sui drammi e sulle tragedie del passaggio via mare facendo informazione-spettacolo con poca spesa. Muore più gente nell’attraversamento del Sahara e dei deserti del Vicino Oriente, ma si tratta di una tragedia che è molto più faticoso e difficile documentare. Ed è anche molto più costoso perché - diversamente che nel caso degli abbordaggi e dei salvataggi in mare - non si può disporre di videoriprese offerte gratis dalla Guardia Costiera e dalle altre forze navali impegnate nelle  operazioni. Non basta insomma mandare a Lampedusa ragazzi e ragazze in tenuta sportiva, anche senza la minima esperienza del lavoro di inviato in zona di crisi, che alla notizia dell’arrivo di motovedette con superstiti e morti a bordo scendono al porto a fare qualche rapida intervista (anche toccante, beninteso) a superstiti e soccorritori per poi tornare nell’albergo dove sono confortevolmente alloggiati. Con poca fatica le loro riprese verranno poi montate insieme a quelle del soccorso in mare gentilmente fornite alle redazioni dagli uffici stampa della Guardia Costiera, della Guardia di Finanza o di chi altro.

Quasi la metà di coloro che giunsero in Europa nello scorso anno erano siriani o eritrei; persone che perciò, prima di raggiungere i luoghi d’imbarco sulle coste nordafricane, hanno viaggiato illegalmente attraverso diversi Paesi. Innescati dalla speranza di trovare infine soccorso e accoglienza in Europa, questi viaggi hanno provocato lo sviluppo di organizzazioni internazionali di passatori che vi speculano sopra in modo criminale. A reciproca garanzia dei migranti e dei passatori il viaggio avviene in genere a tappe cui ogni volta corrisponde il pagamento di una rata del suo prezzo. Il migrante paga alla partenza la prima rata, percorsa la quale via cellulare telefona ai parenti dando notizia di sé e del punto ove è arrivato. I parenti provvedono allora al pagamento della rata successiva e via di questo passo. Chi invece può pagare in contanti soltanto la prima tappa si ferma là dove è arrivato e vi rimane a lavorare clandestinamente fino a mettere insieme quanto occorre per pagare la tappa successiva. Sono questi i casi in cui il viaggio può durare a lungo, talvolta anche qualche anno. Tutto questo avviene in condizioni di illegalità e di precarietà che, come è facile immaginare, espongono i migranti irregolari a sfruttamento e abusi.

L’ultima tappa, quella appunto del passaggio via mare, è pericolosa anche perché i passatori non sono più molto interessati alla sopravvivenza dei migranti, che hanno ormai pagato tutto ciò che potevano pagare. Può accadere poi che i cosiddetti “scafisti” siano essi stessi migranti, con qualche esperienza nautica vera o millantata, che si pagano il passaggio pilotando l’imbarcazione. In tale quadro la questione se sia meglio l’operazione Triton o quella Mare Nostrum è secondaria. La prima cosa da fare sarebbe intervenire in Libia e altrove nei luoghi di imbarco, cosa difficile ma non impossibile. Più importante ancora, e anche  meno difficile, sarebbe andare però a tagliare gli anelli centrali della catena, quelli che non sono in prossimità né della prima, né dell’ultima tappa. 

Pertanto, invece di limitarsi a bussare alla porta dell’Unione Europea, il nostro Paese farebbe bene a chiedere la convocazione di una conferenza internazionale sulle migrazioni irregolari ove affrontare organicamente il problema e mettere di fronte alle loro responsabilità tutte le parti in causa, compreso l’Unhcr/Acnur e l’Onu in genere. A metà degli anni ’70 del secolo scorso, all’epoca della fuga dei “boat-people” dal Sud Vietnam, si fece una  conferenza del genere a Ginevra, e con buoni risultati (chi c’era, noi compresi, lo può testimoniare). Si potrebbe fare qualcosa di simile anche adesso. Più complesso, ma definitivo, sarebbe infine lavorare seriamente per la pace, per il rispetto dei diritti umani e per lo sviluppo dei Paesi da cui i migranti irregolari provengono.