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IL CASO

Disney, la ‘svolta’ gay che tradisce le famiglie

Raccolte da Citizen Go quasi 500.000 firme, consegnate ieri alla Disney per chiedere di fermare l’indottrinamento Lgbt dei bambini. Dai primi “gay days” degli anni Novanta al Magical Pride di quest’anno, fino al primo “coming out” su Disney Channel, la parabola di una multinazionale che sta abbracciando sempre più una cultura anti-famiglia.

Attualità 21_11_2019

Con i tempi che corrono non si può più stare tranquilli nemmeno con Pippo e Topolino, che dopo aver allietato l’infanzia di milioni di bambini in tutto il mondo rischiano di divenire veicolo di un’ideologia che l’infanzia - e a cascata le altre età - la distrugge. E non si tratta solo della celebrazione delle «orecchie arcobaleno» di Topolino, pubblicizzate dalla Disney nel 2018 e oggi vendute insieme a una vasta gamma di gadget (braccialetti, cappellini, magliette, portachiavi, ecc.) con colori e slogan gay-friendly, ma di un processo in corso ormai da diversi anni che riguarda parchi di divertimento, cartoni animati e serie televisive per bambini e ragazzi. Un processo graduale, avviato con concessioni solo apparentemente innocue e  che oggi farebbero sorridere molti, ma che pian piano sta tramutando la Disney in una colonia della propaganda Lgbt.

Ma c’è chi questo processo anti-famiglia vuole fermarlo. È per questo motivo che ieri dei rappresentanti di Citizen Go hanno consegnato al parco Disney nell’area metropolitana di Orlando, in Florida, quasi mezzo milione di firme (fino a ieri pomeriggio erano oltre 485.000) di persone che chiedono all’amministratore delegato della multinazionale statunitense, Robert Iger, e a tutto il consiglio d’amministrazione di stoppare il subdolo lavaggio del cervello dei bambini. «I parchi di divertimento Disney sono considerati un luogo sicuro dove le famiglie possono divertirsi insieme», si legge nella petizione di Citizen Go. «La Disney ha primeggiato specialmente nell’intrattenere e affascinare i bambini. Ma i genitori non vogliono che la Disney indottrini i loro figli con un’agenda politica. Non esiteremo a boicottare i film, i prodotti e i parchi se questo indottrinamento continuerà».

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’organizzazione a Disneyland Paris, per l’1 giugno di quest’anno, del Magical Pride, il primo gay pride ufficialmente sponsorizzato dal colosso dell’intrattenimento, promosso sui canali social della Disney con ritornelli del tipo «è tempo di celebrare la diversità». Al Magical Pride si sono esibiti personaggi cari al militantismo Lgbt, come Boy George, e la nuova icona Olly Alexander, apertamente gay, classe 1990, voce della band britannica Years & Years. È stato, come detto, il primo gay pride “ufficialmente” organizzato dalla Disney, ma che si inserisce in quel fenomeno da pendio scivoloso avviato con il primo “Gay Day” nel parco giochi della Florida nel 1991, e poi nella Disneyland della California, di Hong Kong e di Tokyo: la differenza, rispetto alla ‘svolta’ di Parigi, è che finora la Disney aveva ospitato gli eventi gay, dando anche supporto logistico a chi vi partecipava, ma senza pubblicizzarli nel proprio calendario e senza assumersene la paternità.

Dopo l’annuncio del Magical Pride, sebbene alcuni attivisti volessero e vogliano ancora di più, molti nella comunità Lgbt avevano applaudito l’azienda per il passo compiuto. Tra questi Eliza Byard, direttrice di Glsen, un’organizzazione americana che ha il fine di diffondere l’educazione ai temi omo-transessualisti dall’asilo alle scuole superiori. «Per una grande società di intrattenimento orientata alla famiglia», ha detto la Byard, come riporta il Los Angeles Times, «abbracciare la partecipazione Lgbtq a un parco tematico non è niente da prendere sottogamba in questo attuale clima politico». Un clima politico che lei evidentemente vorrebbe più favorevole di quanto non lo sia già. Eppure, le parole della militante Lgbt sono interessanti perché - ricordando che la fortuna della Disney si basa sulle famiglie - ammettono tra le righe ciò che è ovvio e che tuttavia il martellamento mediatico ha finito per oscurare nelle menti di tanti: ossia che la cultura gay si oppone irrimediabilmente alla famiglia.

La Disney, come moltissime altre aziende in tutto il mondo, sta quindi adottando una strategia suicida, almeno nel medio-lungo termine. Oltre ai parchi, c’è da segnalare la decisione di Disney Channel, che con la serie televisiva Andi Mack ha introdotto il suo primo personaggio gay, l’adolescente Cyrus Goodman (interpretato da Joshua Rush). Sono inoltre note le pressioni dei gruppi Lgbt per fare di Elsa, la principessa di Frozen, una lesbica. Altri passi cosiddetti “inclusivi” la Disney li ha fatti al proprio interno, riconoscendo una serie di privilegi al personale gay, tanto che nel 2019, per il 13° anno consecutivo, la Human Rights Campaign - la più grande lobby Lgbt degli Stati Uniti - ha selezionato la Disney tra i migliori posti di lavoro per «l’uguaglianza Lgbtq».

Di acqua sotto i ponti ne è passata, dunque, dal 1985, cioè da quando la Disney, ponendo fine a una politica stabilita 28 anni prima, smise di proibire alle coppie dello stesso sesso di ballare nei propri parchi di divertimento, non riconoscendo più il fatto come motivo di scandalo.

Questa perdita di coscienza avviene nonostante il “love is love” mostri, giorno dopo giorno, il suo vero volto. Per inciso, sebbene la Disney non c’entri, va detto che ieri negli Stati Uniti ci sarebbe dovuta essere anche Caroline Farrow, direttrice delle campagne di Citizen Go per il Regno Unito. Ma alla donna, madre di cinque figli, da mesi perseguitata dalla comunità trans perché dice pubblicamente che non è possibile cambiare sesso, è stata impedita martedì la già programmata partenza in aereo, verosimilmente perché i suoi molestatori hanno avanzato false accuse contro di lei presso l’Ambasciata statunitense a Londra e, una volta all’aeroporto, le è stato detto che il suo permesso di entrare negli Usa era stato negato.

Tornando alla Disney, che sia sempre più prona al politicamente corretto lo conferma anche la recente minaccia di boicottare la Georgia, ‘colpevole’ di aver ideato un testo di legge per restringere le maglie dell’aborto. Insomma, da grande azienda a misura di famiglia ad azienda che si inchina a chi vuole plagiare i bambini e combatte la famiglia, compresa la vita dei più indifesi, i nascituri. Da tutti i punti di vista, non è una buona scelta.