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PRIVACY

Diritto all'oblio, l'Italia "incastra" Google, l'UE no

Battaglia vinta da Google nel suo scontro con l'Ue sull’applicazione e l’estensione del diritto all’oblio su un caso francese. In Italia invece il Garante della privacy ha ordinato a Google di rimuovere due url che rimandavano ad informazioni giudiziarie non più rappresentative dell’attuale situazione di un imprenditore. 

Attualità 25_09_2019

Battaglia vinta da Google nel suo scontro con la Ue sull’applicazione e l’estensione del diritto all’oblio, ovvero la possibilità per gli utenti di far rimuovere contenuti lesivi o superati dai risultati delle ricerche online. La Corte di giustizia Ue del Lussemburgo ha infatti dato ragione al colosso in una controversia con le autorità francesi esonerandolo dall’obbligo di garantire il diritto all’oblio fuori dall’Europa. Nel 2016, la Commission nationale de l'informatique et des libertés (equivalente del nostro Garante della privacy) aveva inflitto una sanzione da 100mila euro a Google per aver rifiutato di rimuovere alcuni contenuti relativi a un utente anche dalle ricerche condotte su scala globale, configurando una violazione del «diritto di essere dimenticato» di un cittadino Ue. Big G ha fatto appello e ottenuto il parere favorevole del tribunale europeo. La sentenza non potrà essere impugnata. Dunque, i link cancellati dai motori di ricerca Google in Europa potranno rimanere nei motori di ricerca che Google ha negli altri continenti. In Europa gli utenti web non potranno vedere alcuni contenuti che invece saranno visibili, ad esempio, negli Stati Uniti.

Nel maggio 2014, la stessa Corte di giustizia aveva accolto la richiesta di un cittadino spagnolo perché la branca spagnola di Google rimuovesse dal suo motore di ricerca il risultato di due articoli comparsi sul quotidiano La Vanguardia oltre 10 anni prima della presentazione dell’esposto. Da allora Google ha rimosso i contenuti denunciati dagli utenti sulle versioni operative nei vari paesi Ue, senza intervenire però su quelle attive al di fuori dal perimetro europeo. L’Europa chiedeva che la de-indicizzazione di un link venisse effettuata su scala globale, estendendo il diritto all’oblio degli utenti anche negli altri continenti. La sentenza di ieri ribadisce la validità delle regole imposte dall’Europa unicamente nel suo perimetro legislativo. Il verdetto della Corte afferma che «non c’è obbligo, per un motore di ricerca che risponde alla richiesta di de-indicizzazione di una persona [...] di condurre questa ricerca in tutte le versioni del suo motore di ricerca (quindi anche in quelle operative fuori dall’Europa, ndr)» e ricorda che «la legge Ue richiede a un motore di svolgere questa de-indicizzazione sulle versioni del motore di ricerca che corrispondono a tutti gli stati membri della Ue».

Se dunque in materia di territorialità del diritto all’oblio ha vinto Google e il principio delle barriere continentali, peraltro anacronistico in un mondo strutturalmente interconnesso come il nostro, continua a prevalere, in Italia il Garante della privacy sta allargando le maglie del diritto all’oblio con alcuni provvedimenti innovativi. Nei giorni scorsi ha stabilito che il diritto all’oblio sul web va riconosciuto anche a chi si riabilita. La permanenza in Rete di notizie di cronaca giudiziaria non aggiornate può rappresentare un ostacolo al reinserimento sociale di una persona, ragion per cui il diritto all’oblio va riconosciuto anche a chi è stato riabilitato dopo una condanna. Per questi motivi il Garante ha ordinato a Google di rimuovere due url che rimandavano ad informazioni giudiziarie non più rappresentative dell’attuale situazione di un imprenditore. Il caso specifico riguarda un uomo d’affari che ha richiesto a Google la rimozione di informazioni che lo riguardavano relative a una vicenda giudiziaria del 2007 e alla sentenza di condanna del 2010. Nelle pagine web, però, non vi era traccia della successiva riabilitazione che l'uomo aveva chiesto e ottenuto nel 2013.

Nel giudicare fondato il reclamo e ordinare la deindicizzazione, l'Autorità ha ritenuto che l'ulteriore trattamento dei dati realizzato attraverso la persistente reperibilità in rete delle url contestate - nonostante la riabilitazione e il tempo trascorso dal verificarsi dei fatti - determinasse un impatto sproporzionato sui diritti dell'interessato, che non risulta bilanciato da un attuale interesse del pubblico a conoscere la vicenda. La persistenza in Rete di tali informazioni giudiziarie non aggiornate, infatti, non è in linea con i principi alla base dell'istituto della riabilitazione, il quale, pur non estinguendo il reato, comporta il venir meno delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna come misura premiale finalizzata al reinserimento sociale della persona. 

Si tratta, peraltro, di un principio sancito anche dall’art.3 del Testo unico della deontologia giornalistica (2016), che impone a chi fa cronaca di applicare il diritto all’oblio agli ex condannati e agli ex detenuti affinchè il racconto dei fatti che li riguardano non si traduca nella classica gogna mediatica perpetua.

Nel mese di luglio il Garante della privacy aveva riconosciuto il diritto all’oblio a un professionista che si era visto inizialmente respingere la richiesta inoltrata direttamente a Google e aveva imposto al motore di ricerca di rimuovere una url che pure non conteneva il nome e cognome dell’interessato e che, tuttavia, presentava elementi che finivano per renderlo ugualmente identificabile. Quella pronuncia era servita ad affermare un principio ancora più garantista: il diritto all’oblio può essere invocato anche partendo da dati presenti nel web che non siano il nome e cognome dell’interessato se lo rendono identificabile, anche in via indiretta.

L’equilibrio tra diritto di cronaca e diritto all’oblio rimane comunque precario, ma la giurisprudenza si sta evolvendo e sta introducendo nuovi paletti che rafforzano la tutela dell’identità personale di ciascuno in Rete.