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Il libro

“Dio. La scienza, le prove”: buoni spunti, ma approccio ingenuo

Il volume a firma di Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies contiene buoni spunti di riflessione, ma commette l’errore di mettere insieme discorsi scientifici con argomentazioni strettamente religiose. Così, difficilmente interesserà i non credenti.

Cultura 10_06_2024

È possibile dimostrare l’esistenza di Dio? L’argomento non è nuovo e vede il suo più celebre esempio nella “prova ontologica” di S. Anselmo da Aosta. Tutti i tentativi si sono tuttavia fin qui dimostrati inefficaci, dato che nel XXI secolo ci ritroviamo ancora a parlarne. L’occasione è offerta da un libro, pubblicato all’inizio del 2024, che ha riscosso un notevole successo mondiale, “Dio. La scienza, le prove”, di Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies.

Va detto subito che il corposo libro, 612 pagine, oscilla tra un condivisibile atteggiamento di dichiarato accompagnamento alla riflessione sui grandi interrogativi della scienza e un più discutibile intento, manifestato a partire dal titolo, di affermare che l’esistenza di Dio sia scientificamente dimostrabile. A chiarire questo punto ci aiuta molto la prefazione all’edizione italiana scritta dal prof. Antonino Zichichi, che correttamente non si esprime mai in termini di dimostrazione dell’esistenza di Dio, ma afferma che possiamo sostenere la non conflittualità tra scienza e fede. Il conflitto tra queste due realtà è un’invenzione moderna per trasmettere a chi si accosta alla scienza la concezione positivista di Auguste Comte che vedeva la religione come un retaggio di una fase infantile dell’umanità prima di passare a quella filosofica che precede la piena maturità del genere umano conseguita infine con l’approdo alla fase positiva cioè alla sostituzione di fede e filosofia con la scienza.

Il libro di Bolloré e Bonnassies si divide in due parti. La prima è intitolata “Le prove legate alla scienza” e la seconda “Le prove esterne alla scienza”. Queste ultime riguardano argomenti come Le verità umanamente inaccessibili della Bibbia o Fatima: illusione, inganno o miracolo?

Mettere insieme discorsi scientifici con argomentazioni strettamente religiose ottiene come effetto quello di fare del libro un manuale confinato nell’ambito dei credenti in cerca di conferme o argomenti apologetici ma che risulterà privo di interesse agli occhi di un non credente. Titoli come quelli della seconda parte del libro suonano come un tentativo poco convincente di conversione che allontana il lettore comune, si tratta di una comunicazione effettuata con modalità poco efficaci perché evoca nei toni quelli dei Testimoni di Geova con i loro banchetti lungo le vie che suscitano l’immediato riflesso pavloviano a cambiare marciapiede.

La tesi di fondo del libro è che la scienza nel corso dei secoli abbia oscillato da un allontanamento dalla fede compiuto in una prima fase che inizia alle origini della rivoluzione scientifica per poi tornare a condurre a Dio in un secondo tratto che giunge ai giorni nostri. Questa impostazione accoglie purtroppo la falsa narrazione che teorie come quella copernicana, la vicenda di Giordano Bruno, il caso Galilei o la gravitazione di Newton abbiano dato un supporto al materialismo ponendo la religione su una posizione difensiva, cosa non vera all’epoca dei fatti elencati ma solo frutto di una rielaborazione successiva di matrice anticlericale ottocentesca. Porsi in una posizione difensiva significa accettare la narrazione avversa e di fatto confermare l’immagine negativa che si vuole contrastare. Il discorso sulla scienza è efficace se si porta il confronto sul terreno dell’interlocutore. Anni di confronto sulla scienza hanno dimostrato che l’unico modo di ottenere l’attenzione di qualcuno è parlare dei suoi argomenti.

Al contrario, troppi sembrano dimenticare l’insegnamento del cardinal Cesare Baronio citato dallo stesso Galilei nella lettera che indirizzò a Cristina, figlia del duca di Lorena Carlo III e moglie del granduca di Toscana Ferdinando I de' Medici: «È l'intenzione dello Spirito Santo d'insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo».

Scienza e fede non possono dunque essere in contrasto perché si occupano di due campi diversi. Lo stesso principio è stato riproposto in tempi più recenti da S. J. Gould, uno dei più grandi scienziati del ‘900 apprezzato formalmente perché evoluzionista, ma di fatto dimenticato come autore della teoria detta dei “Magisteri non sovrapposti” che afferma proprio la non esistenza di possibili conflitti tra scienza e fede perché trattano di argomenti differenti. Nel libro “I pilastri del tempo: sulla presunta inconciliabilità tra fede e scienza”, pubblicato nel 1999, Gould affronta in modo corretto la questione del rapporto tra fede e scienza. Egli era un ateo di origini ebraiche ed era in quel momento il più celebre degli evoluzionisti, noto per aver pubblicato la teoria degli “equilibri punteggiati”; ma il suo libro sui magisteri non sovrapposti ha subito una specie di damnatio memoriae, perché i sostenitori dello scientismo non amano che il pensiero religioso abbia dignità, nella loro prospettiva positivista deve essere considerato una superstizione del passato.

Nel dibattito sul darwinismo si è sempre cercato di costruire l’immagine di un avversario nemico culturale; questo tipo di personaggi è possibile incontrarli frequentemente e sono lo strumento perfetto di chi vuole delegittimare un confronto serio sui contenuti. L’idea che ogni critica al darwinismo possa essere mossa solamente da motivazioni religiose, più o meno dissimulate, è stata abilmente costruita ed è diventata così radicata che nel 2010 il libro “Gli errori di Darwin” di Jerry Fodor e Massimo Piattelli Palmarini ha dovuto mettere al suo inizio la dichiarazione insistita che gli autori sono atei. Questo non è bastato a salvarli dalla reazione feroce del versante scientista. Lo stesso Piattelli Palmarini, accademico di fama internazionale che attualmente insegna negli USA, ha raccontato più volte del prezzo che ha dovuto pagare per aver osato fare quella critica.

Questo conferma che portare il dibattito nel terreno della religione è un errore ingenuo perché chi vuole difendere delle posizioni vulnerabili cerca proprio di allontanare le critiche etichettandole come provocazioni dei “creazionisti”, uno dei tanti neologismi che bloccano ogni confronto al pari di “negazionista” e “complottista”.

L’importanza di non introdurre argomenti religiosi nel confronto con teorie scientifiche è stata verificata anche qui in Italia quando nel 2011 il sito Critica Scientifica ha iniziato a criticare le affermazioni darwiniste nello stretto ambito scientifico, suscitando dopo soli due anni una reazione vistosa da parte della più autorevole voce del pensiero darvinista in Italia. Alla luce di quanto detto, appare in tutta la sua evidenza l’errore di accettare l’idea di un confronto tra una scienza di impostazione positivista che vorrebbe dimostrare che Dio non esiste e una scienza che viene definita di impostazione “creazionista” che vorrebbe dimostrare il suo contrario: si tratta dello stesso errore sostenuto in direzioni opposte.

Se prendessimo la prima parte del libro di Bolloré e Benassies senza denominarla “Le prove legate alla scienza” e cambiassimo il titolo in “Le grandi questioni aperte della scienza” saremmo in presenza di un interessante spunto di riflessione su grandi temi della scienza che non hanno attualmente una risposta. Troveremmo quindi le domande su cosa ha originato il Big Bang o sulla cosiddetta regolazione “fine” delle costanti fisiche senza le quali la realtà nella sua complessità necessaria per i meccanismi della vita sarebbe impossibile, si giungerebbe in questo modo ai limiti a cui si può spingere la spiegazione scientifica, confini oltre i quali inizia il pensiero filosofico ed eventualmente religioso.

Quello che viene dimenticato nell’approccio di libri come “Dio. La scienza, le prove” è il metodo socratico della maieutica che ricordiamo deriva dal termine “ostetrica” e indica che nell’altro si può far nascere qualcosa, si può estrarre un pensiero che matura nella persona aiutandolo a venire alla luce, non serve provare ad inserire qualcosa dall’esterno. Fornire risposte preconfezionate o sollecitarle in modo evidente non serve, soprattutto nei confronti di chi ha già delle idee radicate. Un cambiamento si può innescare solo mostrando le contraddizioni di un pensiero consolidato e anche così il lavoro può essere lungo e incerto, ma se non si crea prima uno spazio non si può aprire alla possibilità che possa essere accolto qualcosa di nuovo.