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POLITICA

"Difendiamo i nostri figli", l'inizio di un cammino

La riaffermazione della famiglia va vissuta non come la proverbiale ultima spiaggia bensì come l’inizio di una rinascita, come il primo passo per uscire dalla crisi. E’ insomma cominciato un lavoro che non si può lasciare a metà. E a farsene carico è il movimento che il 30 gennaio scenderà in piazza a Roma. 

Editoriali 19_01_2016
Difendiamo i nostri figli, logo

Con la nuova manifestazione sul tema “Difendiamo i nostri figli”, in programma a Roma  il 30 gennaio prossimo, torna alla ribalta quella che è una cruciale novità nella vita pubblica del nostro Paese: un movimento nel senso più proprio del termine, nato nella società civile al di fuori di qualsiasi consolidata organizzazione politica e sociale, che si mobilita a tutela di un valore civile di decisiva importanza. Un movimento che prende le mosse dalla diffusa convinzione, largamente confermata dai fatti, che oggi la democrazia italiana neghi adeguato spazio politico a quei settori della società italiana che in valori del genere attivamente si riconoscono. 

Avendo chiaro che nel futuro prevedibile ciò non è strategico, nemmeno a lungo termine questo movimento mira pertanto a trasformarsi in forza politica. Del tutto nuovo in quanto realtà di obiettivo rilievo politico (ma nient’affatto politica nel senso per così dire tecnico della parola), tale movimento costituisce un’assoluta novità anche per un altro motivo. Animato in larga misura pur se non esclusivamente da cattolici, “Difendiamo i nostri figli” è in tal senso un’iniziativa davvero laicale; e ciò forse per la prima volta nella storia della Chiesa in Italia. In un suo recente discorso ai vescovi italiani papa Francesco aveva affermato che i laici i quali “hanno una formazione cristiana autentica, non dovrebbero aver bisogno del vescovo-pilota, o del monsignore-pilota o di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a quello legislativo!”. L’iniziativa del comitato «Difendiamo i nostri figli», promotore della manifestazione dello scorso 20 giugno e adesso di quella del 30 gennaio prossimo, conferma che nel nostro Paese buona parte del popolo cristiano è già su questa lunghezza d’onda. La cronaca degli eventi conferma anzi che, dalla vigilia della manifestazione dello scorso 20 giugno 2015 fino ad oggi, spesso sono stati piuttosto i laici a fare da piloti a certi vescovi e monsignori che non viceversa.

Si tratta però adesso di continuare, anzi di prendere il largo evitando le secche costituite da due rischi. Uno è quello di riporre in tale rinnovata presenza pubblica esagerate speranze. L’altro è quello di farsi rinchiudere dentro il perimetro di un ristretto orizzonte fissato da altri. Prendiamoli dunque in esame ad uno ad uno.

Ciò che i cristiani hanno innanzitutto e tipicamente da vivere e da offrire agli altri è quanto hanno di meglio, ossia la novità di Cristo. Quindi non fa bene né a noi né nessuno che la battaglia per la difesa dei valori divenga per noi prioritaria fino al punto di risultare più importante rispetto alla comunicazione della novità di Cristo. Nello stesso tempo però niente giustifica una fuga spiritualistica dal mondo. La vera alternativa è piuttosto la comunità cristiana non svuotata del suo spessore storico, e quindi attenta anche alla vita pubblica. E’ questo il quadro in cui si situa la vocazione di chi è impegnato sulla scena pubblica, in campo culturale o politico; per alcuni una vocazione specifica e primaria, ma per tutti un aspetto della propria vocazione cristiana in generale.

Lo ha testimoniato la grande folla di famiglie, di papà e mamme con i loro figli, di nonni con i nipoti, di lavoratori, di pensionati, di studenti che si radunò a Roma in piazza San Giovanni lo scorso 20 giugno, e che si sta preparando alla manifestazione del 30 gennaio prossimo. Essendo ben consapevoli della forza dell’odierna deriva antropologica, e quindi del fatto che per contrastarla occorre innanzitutto vivere e testimoniare una realtà diversa, si ha però pure il dovere di opporvisi con iniziative pubbliche. L’impegno dei cristiani là dove si decide del bene comune degli uomini rimane necessario e importante, pur se nell’attuale frangente storico tale impegno assume prevalentemente un valore critico, e di contenimento nei limiti del possibile degli effetti negativi di tale deriva e della mentalità che ne è la causa. A valle e anzi in forza di ciò la testimonianza e la mobilitazione pubblica conservano dunque la necessità e l’importanza di cui si diceva. 

L’altro rischio da evitare è, come dicevamo, quello di lasciarsi rinchiudere nel perimetro di un orizzonte fissato da altri. In questo momento, dovendo anche ricuperare il molto tempo che negli anni scorsi è stato perduto, ci si deve mobilitare quasi di rincorsa a tutela della famiglia e della vita nascente. L’attenzione per queste questioni cruciali è necessaria, ma tuttavia non sufficiente. Se è vero come è vero che la famiglia è un prisma cruciale, a partire da essa occorre lavorare per elaborare una proposta sociale e quindi politica (nel senso originario della parola) ad ampio raggio.  Prima ancora del pur utile principio della separazione dei poteri introdotto nel pensiero politico da Charles-Louis de Montesquieu, a presidio della libertà e del bene comune è decisivo il riconoscimento del primato della società civile rispetto allo Stato. Il riconoscimento della famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 della Costituzione italiana) ne è la base e il paradigma. In tale prospettiva ci sono poi da sviluppare proposte riguardo non solo alla famiglia ma anche alla scuola, ai servizi di solidarietà sociale, all’economia, alle autonomie locali e sociali, alle relazioni internazionali e così via. La riaffermazione della famiglia va vissuta non come la proverbiale ultima spiaggia bensì come l’inizio di una rinascita, come il primo passo per uscire dalla crisi. E’ insomma cominciato un lavoro che non si può lasciare a mezzo.