Deus ludens: da Guardini a Prevost passando per Ratzinger
Un Dio «che gioca»: domenica scorsa il Papa ha ripreso un'ardita espressione patristica per esprimere la convergenza tra fede e sport. Che a sua volta evoca ulteriori riflessioni sulla liturgia...

È un'immagine inedita ma non troppo quella di un Dio che gioca, usata domenica scorsa da Leone XIV: non troppo perché risalente addirittura ai primi secoli dell'era cristiana. Celebrando domenica scorsa il Giubileo dello Sport nella solennità della Santissima Trinità il Papa se ne è servito per spiegare «perché lo sport può aiutarci a incontrare Dio Trinità», paragonando l'attività sportiva al dinamismo trinitario da cui «sgorga la vita. Noi siamo stati creati da un Dio che si compiace e gioisce nel donare l’esistenza alle sue creature, che “gioca”, come ci ha ricordato la prima Lettura (cfr Pr 8,30-31). Alcuni Padri della Chiesa parlano addirittura, arditamente, di un Deus ludens, di un Dio che si diverte».
L'espressione Deus ludens spalanca la porta a una ulteriore associazione mentale: il concetto di liturgia "come gioco", sia perché dotata di regole sia perché aperta a un mondo "altro" e a un altro fine che trascende quelli della vita di ogni giorno. Romano Guardini la definiva «il santo gioco che l'anima svolge dinanzi a Dio». Incomprensibile per «certe nature gravi e serie (...) che in ogni cosa vedono il compito morale e dovunque cercano il fine» e pertanto «si scandalizzano che la liturgia fissi con tanta minuziosità ciò che si deve compiere prima e ciò che deve avvenire dopo, se a destra o a sinistra, ad alta voce o piano» chiedendosi: «a che pro tutte quelle preghiere e cerimonie?». Ma la liturgia, così come l'arte, spiegava Guardini, «non può essere ridotta soltanto sotto l'angolo visuale della sola finalità pratica», poiché «ha la sua ragione d'essere non nell’uomo, ma in Dio». E come il gioco del bambino «appare sciocco solo a chi non avverte il suo significato o senso e sa vedere la giustificazione d'un atto soltanto negli scopi che se ne possono addurre», così la liturgia «ha cercato con cura infinita, con tutta la serietà del bambino e la coscienziosità rigorosa del vero artista, di dar espressione in mille forme alla vita dell’anima, vita santa alimentata da Dio, mirando a null'altro se non a che essa vi possa dimorare e vivere». Il fine c'è, ma è al di là di questo mondo: «la vita eterna non sarà che il compimento di questo gioco. E chi non comprende questo, potrà afferrare poi che il compimento celeste della nostra vita è "un cantico eterno di lode"? Non finirà costui per rientrare nella categoria delle persone attive, che trovano inutile e noiosa tale eternità?».
Concetto a sua volta ripreso e approfondito nel 2001 da Joseph Ratzinger in Introduzione allo spirito della liturgia: «Negli anni Venti del 1900 si fece il tentativo di ricomprendere la liturgia come “gioco”; il punto di paragone era anzitutto il fatto che la liturgia, come il gioco, ha regole proprie e crea un suo mondo che vale quando si entra in essa e che poi, altrettanto naturalmente, viene meno quando il “gioco” finisce. Un altro punto di paragone era che il gioco è sì dotato di senso, ma allo stesso tempo è libero e, proprio per questo, ha in sé qualcosa di terapeutico, anzi, di liberatorio, dal momento che ci fa uscire dalla vita di tutti i giorni e dai fini che la caratterizzano, insieme con le costrizioni che questi ultimi comportano, liberandoci quindi, per qualche tempo, da tutto ciò che opprime la nostra vita lavorativa. Il gioco sarebbe, per così dire, un altro mondo, un’oasi di libertà in cui possiamo per un momento lasciar scorrere liberamente l’esistenza; di tali momenti di evasione dal potere del quotidiano noi abbiamo bisogno per riuscire a sopportarne il peso. In questo ragionamento c’è qualcosa di vero, ma una simile osservazione non può bastare. Infatti, se così fosse, sarebbe in fondo del tutto secondario a quale gioco giochiamo; tutto ciò che si è detto può essere applicato a qualunque gioco, il cui necessario e intrinseco legame al rispetto delle regole sviluppa subito la sua particolare fatica e conduce a situazioni a loro volta intricate; si pensi al mondo attuale dello sport ai campionati di scacchi o ad altri giochi: dovunque si vede che il gioco, dal totalmente altro di un mondo diverso o di un non-mondo, subito diventa un pezzo di mondo, con sue leggi, sempre che non voglia perdersi in puri, vuoti trastulli. C’è ancora un aspetto di questa teoria del gioco che merita di essere menzionato e che ci porta molto più vicino all’essenza particolare della liturgia: il gioco dei bambini appare in molti suoi aspetti una sorta di anticipazione della vita, un addestramento a quella che sarà la loro vita successiva, senza però comportare tutto il peso e la serietà di quest’ultima. Allo stesso modo la liturgia potrebbe ricordarci che noi tutti, davanti alla vera vita, cui desideriamo arrivare, restiamo in fondo come dei bambini o, in ogni caso, dovremmo restare tali; la liturgia sarebbe allora una forma completamente diversa di anticipazione, di esercizio preliminare: preludio della vita futura, della vita eterna, di cui Agostino dice che, a differenza della vita attuale, non è intessuta di bisogno e di necessità, ma in tutto e per tutto della libertà del donare e del dare. La liturgia sarebbe allora riscoperta del nostro vero essere bambini, dentro di noi, dell’apertura alla grandezza che ci sta davanti e che non è ancora compiuta con la vita adulta; essa sarebbe una forma ben definita della speranza, che anticipa la vera vita, che ci introduce alla vita autentica – quella della libertà, dell’immediatezza con Dio e della totale apertura reciproca. Così, essa imprime anche nella vita apparentemente reale di tutti i giorni i segni anticipatori della libertà, che rompono le costrizioni e lasciano trasparire il cielo sulla terra».