Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
OTTOCENTO DA RISCOPRIRE/XXVII

Desiderio di Dio e di perdono nei Poemetti di Pascoli

Per Pascoli ogni uomo, oltre ad esigenza di infinito e di felicità, è anche urgenza di amore e di perdono, necessità di una presenza che accompagni la nostra vita.

Cultura 17_09_2017

Primi (1897-1904) e Nuovi poemetti (1909) sono caratterizzati dall’uso della terzina dantesca e dalla presenza forte della poetica della memoria.

La seconda raccolta di Pascoli (Primi poemetti) è dedicata alla sorella Maria. La frase incipitaria di Myricae «Arbusta iuvant humilesque myricae» («ci piacciono gli arbusti e le umili tamerici») è sostituita ora dall’espressione «Paulo maiora» («argomenti un po’ più alti»).

La lunga lettera che introduce la raccolta affronta tra gli altri temi la natura della poesia. Pascoli, infatti, scrive: «Il ricordo è del fatto come una pittura: pittura bella, se impressa bene in anima buona, anche se di cose non belle. Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo. Quindi noi di poesia ne abbiamo a dovizia».

Pascoli richiama qui la poetica della rimembranza di Leopardi: la memoria edulcora e trasforma quanto è accaduto nel passato, rendendolo più bello. Poi, il poeta racconta la parabola del rondone, che forse non ha da fare, non ha ancora compagno o compagna, ma per non stare in ozio offre aiuto a una rondinella. Con questo esempio fanciullesco e anche un po’ sentimentale Pascoli vuole parlare della carità. Pascoli sprona tutti noi: «Uomini, dirò come in una favola per bimbi: uomini, imitate quel rondone. Uomini, insomma contentatevi del poco […], e amatevi tra voi nell’ambito della famiglia, della nazione, dell’umanità». Pascoli spiega che «assai» significa nell’etimo latino «sì abbastanza e sì molto». Questa è la «filosofia della lingua», la potenza del linguaggio!

Una meravigliosa poesia, che scaturisce dalla memoria, è «L’aquilone». Il ricordo nasce alla vista del cielo che riporta il poeta ad una sensazione provata nel passato nel collegio di Urbino, quando era ancora un bambino. Era una giornata di festa e tutti facevano volare gli aquiloni. L’aquilone è un’immagine simbolica, che rappresenta la speranza, l’attesa, il desiderio di vivere, come la figura di Silvia nella poesia di Leopardi.

Ad un certo punto l’aquilone cade, si sentono delle strida, in concomitanza con la morte di un compagno di camerata: «Ma ecco una ventata/ di sbieco, ecco uno strillo alto... — Chi strilla?/ Sono le voci della camerata/ mia: le conosco tutte all’improvviso,/ una dolce, una acuta, una velata...». Sentiamo la forte nostalgia del poeta che ritorna con la mente e con il cuore ad anni che sono tra i più dolci bell’esistenza: «A uno a uno tutti vi ravviso,/ o miei compagni! e te, sì, che abbandoni/ su l’omero il pallor muto del viso./ Si: dissi sopra te l’orazioni,/ e piansi: eppur, felice te che al vento/ non vedesti cader che gli aquiloni!/ Tu eri tutto bianco, io mi rammento:/ solo avevi del rosso nei ginocchi,/ per quel nostro pregar sul pavimento./ Oh! te felice che chiudesti gli occhi/ persuaso, stringendoti sul cuore/ il più caro dei tuoi cari balocchi!».

A fine poesia Pascoli presenta forse il più delicato e tenero volto di madre sofferente mai descritto, dopo la Cecilia dei Promessi sposi. Bastano pochi versi al poeta: «Meglio venirci ansante, roseo, molle/ di sudor, come dopo una gioconda/ corsa di gara per salire un colle!/ Meglio venirci con la testa bionda,/ che poi che fredda giacque sul guanciale,/ ti pettinò co’ bei capelli a onda/ tua madre... adagio, per non farti male».

Per Pascoli ogni uomo, oltre ad esigenza di infinito e di felicità, è anche urgenza di amore e di perdono, necessità di una presenza che accompagni la nostra vita. Nella poesia «I due orfani» (sempre appartenente ai Primi poemetti) Pascoli ci racconta di due bimbi che, una sera, spaventati per un temporale, nella loro camera non riescono a prendere sonno e cercano di farsi compagnia parlando e riempiendo il silenzio con le parole. Ogni rumore, anche il più impercettibile, provoca in loro una sensazione di pericolo. L’andamento narrativo, tipico della terzina dantesca, è qui sostituito dalla forma drammatica, cioè teatrale, nell’incalzare repentino delle domande e delle risposte. Ne nasce un rapido e serrato dialogo dal tono colloquiale. I due bimbi sono ora più buoni solo perché non hanno più nemmeno il coraggio di giocare e di litigare, ora che non ci sono più i genitori. I bimbi fanno i capricci perché sanno che c’è qualcuno che li ama e che è disposto a perdonarli e ad abbracciarli nonostante i loro difetti e i loro continui errori.

Ecco il dialogo finale dei due bimbi: «Ricordi? Allora non si stava in pace/tanto, tra noi…» «Noi siamo ora più buoni…»/ «ora che non c’è più chi si compiace //di noi…» «che non c’è più chi ci perdoni». Quando non c’è una presenza amorosa che lo abbracci e che gli voglia bene, l’uomo è incapace di affrontare la realtà, è preso dal dubbio e dalla paura, che può tramutarsi in angoscia. Perché l’uomo possa vivere con entusiasmo e con baldanza deve riconoscere una presenza buona che gli permetta di rialzarsi nonostante tutti gli errori che possa compiere.

La raccolta Nuovi poemetti (1909) è dedicata ai suoi scolari, ai quali il poeta deve molto di più di quanto non abbia dato: «Vi devo l’abitudine di supporre sempre avanti me che scrivo, come ho avanti me che parlo, anime giovanili, che è dovere e religione non abbassare, raffreddare, violare». L’insegnamento è per Pascoli «l’esercizio umano che più con la poesia si accorda». Non è certo un caso che Pascoli fu insegnante e fu poeta. La frase incipitaria, come per i Primi poemetti, è «Paulo maiora».

Nel componimento «La vertigine» un bimbo che ha perso il senso di gravità guarda gli uomini e li vede «immersi nell’eterno vento». Per questo esclama: «Voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,/ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,/[…] pender giù nel vuoto». Il bimbo si sorprende della condizione dell’uomo che è «pendulo», proprio  lui che si sente eretto. Così, perso il senso di gravità, cerca di aggrapparsi  «a una rupe, a un albero, a uno stelo,/ a un filo d’erba, per l’orror del vano!// a un nulla, qui, per non cadere in cielo!». La notte accentua il desiderio del bimbo di sprofondare nel cielo fino a giungere al termine ultimo, al fine e al senso di tutto, fino a incontrare Dio. Un desiderio intensissimo di trovare un ubi consistam, un fondamento, o forse un’origine e un fine. Così lo spiega Pascoli: «Veder d’attimo in attimo più chiare/le costellazioni, il firmamento/crescere sotto il mio precipitare!//precipitare languido, sgomento,/nullo, senza più peso e senza senso:/sprofondar d’un millennio ogni momento!/[…]/forse, giù giù, via via, sperar…che cosa?/La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,/io te, di nebulosa in nebulosa,//di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!».

Nella poesia «Il libro» Pascoli descrive la storia del pensiero e della cultura come una ricerca inesausta di senso, rappresentata da un libro sul leggio di un terrazzo, sfogliato dal vento. Leggiamo: «Sopra il leggìo di quercia è nell’altana,/ aperto, il libro. Quella quercia ancora,/ esercitata dalla tramontana,/ viveva nella sua selva sonora;/ e quel libro era antico. Eccolo: aperto,/ sembra che ascolti il tarlo che lavora». Le pagine ad un certo punto si fermano come se fosse stato svelato il Mistero: «Un uomo è là, che sfoglia dalla prima/ carta all’estrema, rapido, e pian piano/ va dall’estrema, a ritrovar la prima./ E poi nell’ira del cercar suo vano/ volta i fragili fogli a venti, a trenta,/ a cento, con l’impazïente mano./ E poi li volge a uno a uno, lenta-/mente, esitando; ma via via più forte,/ più presto, i fogli contro i fogli avventa./ Sosta... Trovò?».

L’uomo simboleggia un’importante scoperta, un’innovazione, un grande genio che portano l’umanità e il mondo della cultura sul punto di un profondo cambiamento nella storia del pensiero tanto che tutti sono convinti di essere ad una svolta radicale. Poi, ad un certo punto, il vento riprende a rigirare le pagine, in eterno, alla ricerca della verità ancora non pienamente raggiunta. Breve, troppo breve è il viaggio dell’uomo, di quella che il filosofo Blaise Pascal chiama «canna pensante». Per questo conclude il protagonista: «Io lo sento, tra le voci erranti,/ invisibile, là, come il pensiero,/ che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,/ sotto le stelle, il libro del mistero».