Democrazia in agonia, astensionismo record a Trento e Bolzano
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Al di là dell’esito specifico nei due capoluoghi del Trentino-Alto Adige, il dato più allarmante è un altro e riguarda la partecipazione al voto. L’affluenza è crollata sotto la soglia del 50% a Trento e poco sopra il 50% a Bolzano.

Il turno elettorale di domenica in Trentino Alto Adige non ha riservato particolari sorprese in termini di risultati ma ha evidenziato ancora una volta l’agonia della politica. A Trento l’esito era scontato, e così è stato. Il sindaco uscente Franco Ianeselli, esponente del centrosinistra, è stato rieletto già al primo turno con un ampio margine, raccogliendo oltre il doppio dei voti rispetto alla candidata del centrodestra, Ilaria Goio. Una vittoria netta, che conferma la solidità della coalizione progressista nel capoluogo trentino e la capacità del primo cittadino di consolidare il consenso attorno a una proposta politica che, pur senza scosse, ha saputo mantenere un equilibrio amministrativo apprezzato da una larga fetta dell’elettorato. A Bolzano, invece, la partita resta aperta. Si tornerà alle urne domenica 18 maggio per il ballottaggio tra il candidato del centrodestra Claudio Corrarati e quello del centrosinistra Juri Andriollo, assessore comunale uscente. Apparentemente in vantaggio, Corrarati ha raccolto al primo turno circa dieci punti percentuali in più rispetto al suo sfidante, ma il dato va letto con attenzione. Ago della bilancia al secondo turno saranno la Svp, che si attesta al 16,1% e torna a essere il primo partito in città (il candidato sindaco Stephan Konder si ferma però al terzo posto), e la civica Io sto con Bolzano, che ha ottenuto il 2,9%. Queste terze forze potrebbero spostare gli equilibri a favore dei progressisti e propiziare un recupero da parte di Andriollo e una possibile affermazione finale del centrosinistra.
Ma al di là dell’esito specifico nei due capoluoghi del Trentino-Alto Adige, il dato più allarmante è un altro e riguarda la partecipazione al voto. L’affluenza è crollata sotto la soglia del 50% a Trento e poco sopra il 50% a Bolzano. Un segnale inequivocabile di disaffezione crescente verso la politica e le istituzioni.
Non si tratta di un fenomeno isolato o passeggero, ma di una tendenza strutturale che si ripete in ogni tornata elettorale, confermando la distanza sempre più ampia tra cittadini ed eletti, tra società e rappresentanza politica. La disillusione colpisce in modo trasversale, coinvolgendo soprattutto le nuove generazioni, ma non solo. Anche tra gli elettori più politicamente maturi si avverte una crescente indifferenza, o addirittura ostilità, verso un sistema percepito come autoreferenziale, inefficace e spesso incapace di rispondere ai bisogni concreti delle persone.
In questo contesto vanno interpretati anche i sondaggi nazionali, che continuano a indicare un centrodestra stabilmente in vantaggio sul centrosinistra, con Fratelli d’Italia attorno al 30% e Giorgia Meloni saldamente alla guida dell’esecutivo. Ma questi numeri, se non letti con spirito critico, rischiano di essere fuorvianti. Fotografano solo una parte della realtà: quella degli elettori attivi, che ancora si recano alle urne e si esprimono. Ma ignorano la fetta sempre più ampia di cittadini che hanno scelto l’astensione, non per apatia, ma per delusione, per sfiducia, per mancanza di alternative credibili. La premier Meloni prova a giocare la carta del premierato, nella speranza di rianimare la partecipazione e rafforzare la stabilità del sistema. Ma non è detto che sia la strada giusta. Anzi, senza un lavoro parallelo di rigenerazione del rapporto tra politica e società, la riforma rischia di essere percepita come un ulteriore accentramento del potere, poco in sintonia con un clima già carico di sospetto. Altri invocano un ritorno al proporzionale puro, sistema che certo non facilitava la governabilità, ma aveva il merito di rappresentare anche le minoranze e di stimolare la partecipazione degli elettori dei partiti più piccoli, che si sentivano comunque parte di un progetto collettivo e avevano la possibilità di portare le proprie istanze in Parlamento.
In ogni caso, la questione centrale resta una sola: la crisi della politica è profonda, generalizzata, e colpisce sia chi governa che chi sta all’opposizione. Se Atene piange, Sparta non ride. Nessuno può dirsi al riparo da questo vento freddo che soffia sulle democrazie europee, e l’Italia non fa eccezione. Servirebbero riforme condivise, capaci di restituire dignità e centralità alla partecipazione, al confronto, alla costruzione di un consenso che non sia solo numerico, ma anche culturale e valoriale. Perché governi eletti da meno della metà degli aventi diritto, pur legittimi sul piano formale, sono deboli sul piano sostanziale. Hanno una forza contrattuale limitata nei confronti delle parti sociali, del mondo imprenditoriale, dei poteri economici e finanziari, sia nazionali che internazionali. E soprattutto non riescono a farsi percepire come realmente rappresentativi. Questo è il vero nodo che la politica dovrebbe affrontare con urgenza, al di là delle appartenenze e degli schieramenti.
Una democrazia che perde la sua base partecipativa non è solo più fragile: è anche più esposta a derive populiste, a soluzioni autoritarie, a tentazioni plebiscitarie che svuotano i contenuti in nome della semplificazione. È per questo che i segnali che arrivano da Trento e Bolzano, per quanto locali, non possono essere archiviati come episodi marginali. Sono piuttosto l’ennesima conferma di un disagio che cresce, e che richiede risposte nuove e coraggiose. Riformare la politica per salvarla: forse è da qui che bisogna ripartire.