Dat e idratazione, i limiti della Carta sanitaria vaticana
Il Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari ha da poco dato alle stampe la Nuova carta degli operatori sanitari. Molti sono i passaggi interessanti e di spessore, sempre puntellati da validi riferimenti al Magistero. Però non mancano alcune sbavature e vere e proprie pecche, come nell'accettazione delle Dat e sul concetto di idratazione come cura.
-CAPPATO, DA ACCUSATO AD ACCUSATORE di Massimo Polledri*
Il Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari ha da poco dato alle stampe la Nuova carta degli operatori sanitari. Le tematiche sono molte: dall’aborto al prelievo di organi, dall’alcolismo all’obiezione di coscienza etc. Vogliamo qui mettere sotto la lente di ingrandimento il capitolo dedicato al “Morire”. Molti sono i passaggi interessanti e di spessore, sempre puntellati da validi riferimenti al Magistero. Però non mancano alcune sbavature e vere e proprie pecche.
Il documento ad esempio ci informa che “la rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle dichiarazioni o direttive anticipate di trattamento, escluso ogni atto di natura eutanasica”. (n. 150)
Il Pontificio consiglio esprime un giudizio positivo sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), quel documento in cui il dichiarante indica quali cure vorrà ricevere o meno nel caso in cui non sia più in cosciente in futuro. Per avvalorare questa scelta si cita anche un passaggio del Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2278) – il rispetto delle ragionevoli volontà del paziente – ma che riguarda invece il paziente vigile e capace di intendere e volere il quale esprime consenso attuale, caso dunque che non può in nessun modo riguardare le Dat.
Passiamo al merito. Abbiamo già avuto modo di dimostrare che le Dat presentano fragilità strutturali che ne fanno uno strumento poco valido in campo clinico e assai pericoloso. Diamo qui un sunto di tali difetti. In primo luogo la non attualità delle volontà. Io decido ora per allora, non potendo prevedere da quali patologie sarò affetto, né le relative cure, né il mio quadro clinico futuro. Terapie oggi inefficaci potranno un domani diventare invece decisive. Inoltre le volontà terapeutiche delle Dat non possono essere informate, perché l’informazione da parte del medico sul quadro clinico e relative terapie ha ancora da venire. Una decisione poi assunta da sano quando lo spettro del coma o di altre forme di perdita di coscienza ci paiono terribili. Ma la letteratura scientifica ci dice che una cosa è decidere da sano in merito ad un piano terapeutico, un’altra da malato quando, per la maggior parte delle volte, ci aggrappiamo disperatamente alla vita anche se colpiti da profonde disabilità.
L’aspetto decisivo sta dunque nel fatto che le volontà espresse nelle Dat vengono cristallizzate nel passato e non possono essere più modificate dal dichiarante, anche se lo volesse, perché ormai ha perso coscienza. Studi ci dicono poi che la rivedibilità delle Dat è inefficace, sia perché gli eventi futuri rimangono comunque non perfettamente prevedibili sia perché gli stessi estensori, pur avendo cambiato idea sulle terapie, non si accorgono di questa mutazione di giudizio e quindi non sentono l’esigenza di aggiornarle. Senza poi tenere in considerazione che tra il proposito di rivedere le Dat e la revisione vera e propria può inserirsi un evento imprevisto traumatico che può portare la persona a non essere più capace di intendere e volere.
Oltre a questo molti studi comprovano che il dichiarante, pur con l’assistenza medica, non comprende bene il significato di termini medici e dunque le volontà scritte spesso non corrispondono alle reali volontà interiori dell’estensore delle Dat. A tutti questi difetti non può porre rimedio nemmeno la figura del fiduciario, chiamato a dare attuazione alle Dat. Infatti altre ricerche hanno evidenziato l’inattendibilità del fiduciario che, anche inconsapevolmente e a volte con dolo, è portato a proiettare sulle Dat i propri desideri e non quelli del dichiarante.
In buona sostanza questo è uno strumento inefficace per rispettare le ragionevoli volontà del dichiarante e anzi, come abbiamo visto, ne rappresenta l’antitesi perché non permette alla libertà della persona di rendersi attuale.
Al di là delle fragilità connaturate a questo strumento, a cosa potrebbero servire le Dat secondo il Pontificio consiglio? Il documento ci dice che le Dat non devono essere utilizzate per l’eutanasia. E fin qui bene. Poi si aggiunge che potrebbero servire per evitare l’accanimento terapeutico. Per accanimento terapeutico si indica una sproporzione – documentata in letteratura - tra mezzi terapeutici usati e risultati sperati tenuto conto di una infinità di circostanze: tipo di patologia, di terapie, quadro clinico, risposta al dolore, condizioni psicologiche del paziente, esborso economico, etc. (per le tematiche di fine vita si richiede anche la condizione di paziente terminale).
Tutti parametri che si possono concretizzare solo nel momento in cui si decide di intervenire, non ex ante. Quindi tentare di prevedere nelle Dat tutte queste future condizioni è quasi impossibile. Di contro se uno volesse tagliare la testa al toro e scrivere nelle proprie Dat “Non voglio l’accanimento terapeutico”, senza entrare nel dettaglio, tale dicitura è inutile perché questa espressione così generica si potrà riempire di contenuto specifico solo quando, per l’appunto, il medico si troverà a dover decidere nella contingenza particolare.
Oltre a queste riserve proprie dello strumento Dat, ci appare davvero poco opportuno promuovere questo tipo di dichiarazioni che laddove sono state usate hanno sempre portato all’eutanasia. Il Pontificio pare accorgersi di questo pericolo e allora è costretto a specificare che “il medico non è comunque un mero esecutore [delle Dat], conservando egli il diritto e il dovere di sottrarsi a volontà discordi dalla propria coscienza” (n. 150). Tra l’altro, sarebbe stato necessario aggiungere l’aggettivo “retta” al termine “coscienza”.
Altro passaggio ambiguo: “la nutrizione e l’idratazione, anche artificialmente somministrate, rientrano tra le cure di base dovute al morente, quando non risultino troppo gravose o di alcun beneficio” (n. 152). Sarebbe stato più preciso scrivere che nutrizione e idratazione sono mezzi di sostentamento vitale. Vero è che sono cure. Infatti il curare è condotta di carattere generale nel cui seno sono ricompresi tutti quegli atti che appunto si prendono cura del paziente: dall’operazione chirurgica ai farmaci (terapie), dalla pulizia del paziente al conversare con lui, dalla nutrizione all’idratazione. Però dato che nutrizione e idratazione fanno parte del medesimo insieme concettuale “cura” di cui fanno parte anche i trattamenti sanitari questo potrebbe provocare fraintendimenti: come il paziente può rifiutare alcune cure così potrebbe rifiutare anche nutrizione e idratazione, scelta quest’ultima che lo porterebbe a morire.
Bene invece fa il documento a rammentare un parere della Congregazione per la Dottrina sulla Fede: “La somministrazione di cibo e acqua […] è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente» (Responsa ad quaestiones ab Episcopali Conferentia Foederatorum Americae Statuum propositas circa cibum et potum artificialiter praebenda). Detto in altri termini, è inutile nutrire e alimentare un corpo che rifiuta o non assimila cibi e liquidi in alcun modo.