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Dare del gay non è un insulto, dice la Cassazione

Il signor Carlo Alberto Chichiarelli in una litigata aveva apostrofato un’altra persona con il termine “omosessuale”. Quest’ultima a sua volta lo aveva trascinato in giudizio per diffamazione perché omosessuale non era. Il primo grado gli dà ragione, ma la Cassazione annulla la sentenza. Non è un insulto.

Cronaca 02_12_2016
Giudici di Cassazione

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha pronunciato una sentenza, depositata il 29 novembre scorso, che è davvero un segno (giuridico) dei tempi.

Il signor Carlo Alberto Chichiarelli in una querela aveva apostrofato un’altra persona con il termine “omosessuale”. Quest’ultima a sua volta lo aveva trascinato in giudizio per diffamazione perché omosessuale non era: il Giudice di Pace di Trieste nel marzo del 2015 gli aveva dato ragione. Il Chichiarelli impugna allora  la decisione del giudice direttamente in Cassazione, la quale annulla la sentenza del Giudice di Pace e quindi accoglie le doglianze del Chichiarelli.

Ricostruiamo ciò che hanno detto gli ermellini in sentenza. Prima di tutto i giudici ricordano in cosa consiste il reato di diffamazione: “oggetto di tutela del delitto di diffamazione è l’onore in senso oggettivo e esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato,  da intendersi come il senso della dignità personale in conformità dell’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico. E’ dunque necessario […] che i termini dispiegati od il concetto veicolato attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo”. Quindi se Tizio ti dice che sei un luterano e tu gli rispondi che “no, sono cattolico”, non sussistono gli estremi del reato di diffamazione, perché dare del luterano ad uno che non lo è sarà pure falso, ma non è oggettivamente lesivo dell’onore e del decoro di una persona. Altrimenti chi è luterano per davvero dovrebbe sentirsi offeso. In altre parole appartenere alla confessione protestante non è di per sé una condizione lesiva del buon nome di una persona. Parimenti per l’omosessualità.

Ed infatti la Cassazione così prosegue: “E’ innanzitutto da escludere che il termine ‘omosessuale’ utilizzato dall’imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto. A differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio […] il termine in questione assume  infatti un carattere di per sé neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale ad un soggetto evocato ed è in tal senso entrato nel linguaggio comune. E’ da escludersi altresì che la mera attribuzione della suddetta qualità – attinenti alle preferenze sessuali dell’individuo – abbia di per sè un carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo e ciò tenendo conto dell’evoluzione della circostanza da parte della collettività”.

Perciò se dai del “frocio” a Tizio il reato di diffamazione sussiste, ma dare dell’omosessuale no, perché il termine – per i giudici - non ha attualmente una accezione socialmente negativa. Forse lo poteva avere qualche anno fa, ma oggi il significato che la collettività assegna a questa parola è neutra, se non positiva. Quindi perché inalberarsi tanto?

Ma tizio rivendica la propria eterosessualità, ci verrebbe da obiettare. Insomma Chichiarelli ha mentito. I giudici rispondono che dare dell’omosessuale ad un eterosessuale semmai è lesivo dell’identità personale del soggetto che si è sentito offeso, ma non è diffamazione. La tutela della propria rappresentazione identitaria – cioè ciò che noi riteniamo di essere e che ci piacerebbe che gli altri ci riconoscessero  – non ha tutela penale secondo la Cassazione, ma solo civile. E comunque non rientra nel delitto di diffamazione. Poco importa dunque la suscettibilità soggettiva.

Un paio di commenti. La Cassazione ritiene che il termine “omosessuale” non abbia accezione socialmente negativa. Per sapere se un orientamento sessuale è buono o meno si deve perciò ascoltare cosa dice la massaia di Forlimpopoli dal parrucchiere, mica gli studiosi. D’altronde come dare torto alla Cassazione se il buon nome di una persona dipende dalle categorie di giudizio che ha in testa la gente? E dunque per paradosso se dai del cattolico ad uno che è ateo magari questo ti querela per diffamazione e pure vince – perché il lemma “cattolico” è gravido di perniciose insinuazioni - se gli dai dell’omosessuale non accade. Quindi se per i più la parola “omosessuale” ha un significato positivo, ecco che tale positività viene registrata anche dalla giurisprudenza la quale da tempo immemore non cerca più la verità sull’uomo, bensì va dove soffia il vento della maggioranza (ma solo se la maggioranza la pensa come i giudici).

Ma c’è un secondo aspetto di questa sentenza ancor più significativo. E’ l’ennesimo sdoganamento per via giurisprudenziale dell’omosessualità che viene inquadrata come condizione naturale del cittadino. Come se fosse l’etnia, l’appartenenza religiosa o ad una nazione. Oppure viene qualificata come una qualsiasi condizione sociale quale l’essere un libero professionista, un padre di famiglia, un pensionato.

Se i giudici si fossero azzardati invece a dire che qualificare come omosessuale una persona che non lo è comporta cadere nel reato di diffamazione, le comunità gay sarebbero subito insorte perché avrebbe significato che tutte le persone omosessuali portano in sé un marchio infamante. Invece essere omosessuale è condizione neutra. Ecco perché non ti devi sentire offeso se ti danno dell’omosessuale anche se non lo sei. Anzi, devi ringraziare.