Dante insegna qual è la gloria che non passa
Nel canto XI del Purgatorio, Dante vuole sottolineare tre diversi tipi di superbia: per nobiltà di sangue, per l’arte e per la politica. Le sue riflessioni sulla fama sono quantomai attuali in un’epoca in cui sembra essersi avverata la ‘profezia’ di Andy Warhol sui 15 minuti di celebrità. Ma la gloria umana passa, mentre il sigillo della verità è eterno.
La Commedia permette di approfondire lo studio anche di altre discipline, come la storia, l’arte, l’astronomia, la filosofia, perché è una summa, una sorta di enciclopedia medioevale che può in maniera affascinante illuminare altri àmbiti.
Dante ci ha, inoltre, avvisato nel Convivio che un’opera di carattere sacro deve essere letta su quattro livelli: il letterale, l’allegorico, il morale e l’anagogico. Troppo spesso ci si limita nelle scuole a capire la lettera del testo dantesco e l’allegoria (il significato nascosto), senza la preoccupazione di intendere quello che Dante scrive per la nostra felicità (significato morale) e per la nostra salvezza (livello anagogico).
Per ritornare a leggere la Commedia occorre un io che sia risvegliato e assetato di domanda di vita e di significato, che sia desideroso di «divenire del mondo esperto/ e de li vizi umani e del valore», che riscopra che la natura umana non è fatta come quella delle bestie, ma «per seguir virtute e canoscenza». Proviamo a verificare come una quarantina di versi (tratti dal canto dei superbi, Purgatorio XI, vv. 79-117) permettano una lettura su più livelli.
«Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?». 81
«Frate», diss’elli, «più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte. 84
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese. 87
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio. 90
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse! 93
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura: 96
così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido. 99
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato. 102
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ‘l ‘dindi’, 105
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto. 108
Colui che del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia, 111
ond’era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta. 114
La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba». 117
Grande miniaturista del XIII secolo, in vita, preso dalla superbia e dal desiderio di eccellenza, Oderisi non avrebbe mai riconosciuto la superiorità degli altri artisti. Ora che si sta purificando può con libertà e serenità riconoscere la grandezza altrui.
Bologna era un importante centro universitario nel Duecento, in cui sorsero molte avanguardie artistiche: lì nacque il padre del Dolce stil novo, quel Guido Guinizzelli che Dante collocherà tra i lussuriosi in Purgatorio, lì nacque il miniaturista Franco (chiamato appunto Bolognese) che dipingeva con una tecnica più dinamica, vivace, colorita e svolazzante rispetto a Oderisi, rendendo così le miniature più «ridenti» (belle). Oderisi da Gubbio rappresenta, quindi, la tradizionale tendenza bizantina nella miniatura, mentre Franco Bolognese l’ondata di innovazione goticizzante. Interessante è scoprire che le uniche notizie che ci sono giunte su questo grande miniaturista che ha superato Oderisi provengono dai versi danteschi. Nessun’altra testimonianza ci documenta la sua vita e la sua fama.
Pochi versi dopo, Dante pone in bocca a Oderisi le sue riflessioni relative alla vanità dell’umana gloria, alla quale il poeta aveva pur sempre ambito in vita. Questo è il suo ragionamento. La fama in Terra dura per pochi anni salvo nel caso in cui un artista di valore non sia vissuto in un’epoca cui segue un altro periodo di decadenza. Ma gli artisti che hanno prodotto le loro opere in momenti di splendore culturale rapidamente sono superati da altri più grandi, spesso i loro discepoli.
Ecco alcuni esempi. Cimabue (1240 - ca 1302) venne superato dal discepolo Giotto (1265/1266 - 1337), grande genio della pittura, conterraneo e coetaneo di Dante, che ha rivoluzionato la pittura tra Duecento e Trecento. Pensiamo che due grandi geni come Dante e Giotto sono nati nello stesso anno (o comunque a pochi mesi di distanza) e nella stessa città! Ormai pochi parlano di Cimabue perché la sua fama è stata oscurata da Giotto. Così Guido Guinizzelli è stato superato da un altro Guido, il Cavalcanti, nato cinque anni prima di Dante, suo grande amico (il maggiore, per quanto scrive Dante nella Vita nova).
Interessante può essere al riguardo confrontare il sonetto di Guido Guinizzelli Io voglio del ver la mia donna laudare con il sonetto di Cavalcanti Chi è questa che vèn ch’ogn’om la mira, mostrare agli studenti le diversità e le somiglianze tra le due modalità di descrivere e trattare il tema della donna e dell’amore. Importante è anche chiedere ai ragazzi di sviluppare un proprio senso estetico e di esprimere un giudizio sulla propria preferenza.
Oderisi prosegue dicendo: «e forse è nato/ chi l’uno e l’altro caccerà del nido»: versi geniali, forse sottovalutati dalla critica. Ovviamente, quasi tutti gli studiosi hanno identificato in Dante questo personaggio che supererà gli altri due sottolineando qui la superbia del poeta. Io credo che Dante abbia, in realtà, compiuto con poche parole il massimo atto di umiltà e di purificazione concepibile: di fronte ai miliardi di lettori che nei secoli successivi avrebbero letto e studiato la sua opera, in maniera pubblica lo scrittore ha additato sé come superbo, volutamente e spontaneamente. Non c’è studente che all’ascolto di questi versi non abbia un risentimento di fronte al Fiorentino, provando un certo fastidio per il suo vanto. Ma Dante, di proposito, proprio nel canto dei superbi, si batte il petto e di fronte non solo ai suoi contemporanei, ma anche a tutti i posteri professa la sua colpa.
Tema centrale del Purgatorio è l’importanza della purificazione e della redenzione. Il vizio è il peccato riasserito e diventato abitudine per cui la persona perde anche la consapevolezza della colpa per l’abitudine acquisita. Ciascun lettore può incorrere nei vizi capitali ed è bene che, come Dante, si purifichi finché è in vita. La lettura della seconda cantica è, dunque, l’avventura della lotta quotidiana dell’uomo contro il proprio male nell’affermazione dell’amore a Cristo.
La preghiera dei superbi in via di purificazione è il Padre nostro, che mostra gli uomini come tutti fratelli, perché figli dello stesso Padre. La preghiera, che ci ha insegnato il nostro stesso Signore, viene declamata per intero dalle anime in una parafrasi esplicativa. Anche l’ultima parte («Nostra virtù che di legger s’adona/ non spermentar con l’antico avversaro,/ ma libera da lui che sì la sprona») viene pronunciata non già per le anime purganti, ma per chi è ancora in vita. Viene qui espresso in maniera stupenda il legame che unisce quanti sono già in Cielo (Chiesa trionfante), le anime purganti (Chiesa purgante) certe di salire in Paradiso e i credenti sulla Terra (Chiesa militante): le tre Chiese costituiscono la comunità dei santi, unita in maniera misteriosa nella preghiera. Dante auctor constata che anche noi dobbiamo ricordarci di pregare per i defunti per «atar (aiutare) lavar le note (i peccati)/ che portar quinci (dalla Terra)».
Se la superbia può essere definita nelle sue diverse forme come amor excellentiae (desiderio di primeggiare e di essere il primo misconoscendo il valore e la eventuale supremazia dell’avversario) secondo la definizione di san Tommaso, Dante vuole sottolineare tre diversi tipi di superbia attraverso i personaggi descritti nel canto XI: per nobiltà di sangue, per l’arte e per la politica.
I versi di Oderisi permettono una riflessione di carattere esistenziale sul desiderio di fama degli esseri umani. Che cos’è la fama sulla Terra, si chiede Oderisi da Gubbio, ora che può vedere la vita e la realtà in maniera certa e con serenità d’animo? È un «mondan rumore», un rumore (non suono, senza comunicazione) del mondo, che assume i nomi mutevoli e diversi di quei personaggi che diventano importanti, ma la cui fama in realtà è come il soffio di vento, che muta nome perché muta il punto da cui spira (rosa dei venti). Tra mille anni che fama rimarrà di noi sulla Terra se moriremo da bambini o da anziani? Che cosa conterà davvero? L’unica cosa che davvero conterà sarà il conseguimento del vero premio che è l’eternità. Con il personaggio di Oderisi da Gubbio, Dante ci presenta così la superbia per l’arte, in un certo senso l’ambito che permette di conseguire la fama più importante secondo lui.
Le riflessioni di Dante sulla fama sono quantomai attuali in un’epoca in cui sembra essersi avverata la profezia di Andy Warhol: In the future everyone will be world-famous for 15 minutes («Nel futuro ognuno sarà famoso, al mondo per 15 minuti»). I new media non solo accelerano la diffusione della notorietà di personaggi già famosi, ma anche creano la celebrità di persone completamente sconosciute che, nel giro di poche ore o di pochi giorni, possono ottenere fama, successo e cospicui introiti.
I giovani sono bombardati dall’idea che si possa diventare famosi, vogliono essere cliccati, ottenere quanti più «Mi piace», segno di esistenza in vita, di riconoscimento. La facilità del servizio, l’eliminazione della fatica, del dispendio inutile di tempo, dell’immediatezza del consumo e della rapidità dell’ottenimento della fama senza un giusto percorso graduato sono elementi che contraddistinguono un’epoca incentrata sul «piacere» più che sulla «roba». Sempre più, oggi, la comunicazione è caratterizzata da urgenza d’immediatezza, come se non fosse tanto importante il messaggio veicolato, la profondità, la possibilità di un’apertura nel rapporto, quanto la dimostrazione di essere in una comunità, di appartenere appunto ad una community.
La comunicazione del messaggio, qualunque esso sia, è prova stessa dell’esistenza del mittente e la risposta altrui ne diventa garanzia. È come, però, se questa comunicazione avesse bisogno di una continua riasserzione, ovvero è come se al messaggio inviato dovesse corrispondere l’immediatezza della risposta in un circuito vizioso che esclude la consapevolezza che i risultati sono frutto della fatica e del tempo, della costanza e del sacrificio (termine che significa «rendo sacro, intoccabile, inviolabile»), non dell’immediatezza e del «mordi e fuggi».
Quello che manca oggi è proprio la dimensione del sacrificio e della responsabilità. Quello che manca oggi è la consapevolezza che nel tempo si costruiscono i rapporti e le relazioni, così come nel tempo si costruiscono le grandi cattedrali. All’uso e al dono del tempo all’altro si è sostituita l’immediatezza e la repentinità della relazione a cui non si possono offrire il tempo e la propria persona. L’uomo vuole tutto il tempo per sé. Il paradosso è che, così, lo spreca e, spesso, non sa come utilizzarlo in maniera proficua.
Chiediamoci col Manzoni de Il cinque maggio: «Fu vera gloria?». Manzoni non avrebbe dubbi al riguardo: se di fronte all’eternità è silenzio e tenebra la gloria che fu di Napoleone (come leggiamo alla fine della poesia), figuriamoci la notorietà di chi ostenta performance senza avere virtù particolari o talenti. Il sigillo della verità è, infatti, la durata nel tempo, perché solo ciò che è vero persiste.