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SVIZZERA

D'Amico morto per eutanasia, non per errore

Il magistrato Pietro D'Amico, morto in una clinica svizzera, non era malato. Questa vicenda rivela la fragilità del principio di autodeterminazione: se si apre il varco della morte on demand non ci si può lamentare se qualcosa va storto.

Vita e bioetica 12_07_2013
Pietro D'Amico

I giornali e i Tg commentano più o meno così: “Errore fatale”. Si riferiscono alla vicenda del magistrato Pietro D’Amico che lo scorso aprile si era recato in una clinica di Basilea per farla finita (ne avevamo già trattato su queste colonne: “L’eutanasia di un magistrato e la morte del tu”). Ora l’autopsia condotta dall’Istituto di Medicina legale dell’Università di Basilea e chiesta alla magistratura svizzera dalla figlia e dalla moglie – non informate dall’uomo del suo proponimento suicida – rivela che non era malato.  In Svizzera puoi chiedere la “dolce morte” solo se sei affetto da una patologia incurabile e in fase terminale. La diagnosi poi deve essere redatta da due medici diversi. Michele Roccisano, avvocato della moglie e della figlia di D’Amico, ha fatto sapere che dopo gli esiti dell’autopsia la negligenza dei medici appare evidente e che inoltre mancava il doppio parere clinico. 

Nei commenti che sono fioriti sui media vi sono due costanti di giudizio che sorprendono. In primo luogo ciò che indigna non è l’eutanasia. Ciò che indigna è il fatto che un uomo è morto perché qualcuno non ha rispettato le procedure. E’ un po’ come l’aborto clandestino da noi: alla notizia che il Dottor X fa aborti clandestini ciò che ripugna non è il pensiero dei bambini ammazzati, ma è il pensiero che alcuni bambini sono stati tolti di mezzo non rispettando le procedure previste dalla legge. Tornando alla vicenda D’Amico potremmo dire che si può andare all’altro mondo, ma rispettando le regole del gioco. Altrimenti è un’indecenza e chissà dove andremo a finire. L’unica morte da benedire è quella pulita, in camice bianco, musica di Mozart in sottofondo, con tutte le carte protocollate e firmate debitamente. Il resto è roba da serial killer. 

Secondo aspetto ancor più inquietante. Se D’Amico fosse morto perché malato nessuno si sarebbe stracciato le vesti. Ma che invece si finisca nell’aldilà quando uno è sano come un pesce è una vergogna. E chi ha deciso – domandiamo noi in modo provocatorio – che non è lecito chiedere di morire seppur sani? Nella brutta storia di D’Amico si mette a nudo la fragilità del principio di autodeterminazione se inteso in senso assoluto. Se è solo il soggetto l’unico giudice in grado di decidere quando la propria vita è degna di essere vissuta, allora qualsiasi motivo per morire deve da tutti essere accettato e non può essere sindacato in alcun modo. La perdita di un affetto, un crack finanziario, la sconfitta della squadra del cuore o un vago ma asfissiante male di vivere sono tutti motivi validi per finire nella fossa, dato che spetta solo all’individuo decidere quando e perché togliere il disturbo. 

Se invece si temono le derive di questo approccio così libertario si finisce dalla padella nella brace perché dovremo trovare un soggetto autorevole – lo Stato? Un comitato etico nazionale? Un gruppo di illuminati? – che decida al posto nostro quando, non soggettivamente, ma oggettivamente la vita umana non è più degna di essere vissuta. Dall’autodeterminazione all’eterodeterminazione. Insomma nella lettura della vicenda di D’Amico si dà per scontato che se uno è malato terminale ha tutto il diritto di prendere appuntamento con la Signora con la falce, ma se è sano, seppur infelice, è solo un atto di egoismo.

L’obiezione a quanto sin qui detto potrebbe suonare così: D’Amico non si sarebbe mai tolto la vita se avesse saputo che non era malato. Sono i medici che lo hanno ammazzato. Risposta: in primo luogo non si sa bene se davvero le cose stiano così. Quando si spense la versione più accreditata era che D’Amico non era malato ma solo depresso, depressione forse derivata anche dai suoi trascorsi giudiziari che lo avevano visto indagato e poi prosciolto. Ma ammesso e non concesso che invece il magistrato non avrebbe mai chiesto l’eutanasia se avesse conosciuto con esattezza le proprie condizioni di salute, questa storia italo-elvetica di controversa eutanasia insegna che se apri il varco alla morte on demand poi non ti devi lamentare se qualcosa va storto: sono cose che succedono anche nelle migliori cliniche. Insegna che chi si spinge volontariamente sul baratro della morte poi ci può finire dentro contro la sua volontà anche solo per un refolo di vento: a spinger lo sguardo nell’abisso si rischia di venirne travolti. Insegna che pali e paletti posti dalla legge per disciplinare il male prima o poi finiscono sulla testa proprio di chi li ha voluti. Insegna che chi filtra il moscerino – qui chiudono gli occhi per sempre solo i malati terminali – poi facilmente ingoia il cammello – per tre volte il dott. D’Amico ci è venuto a trovare, come si poteva dirgli di no?

In breve: D’Amico non è morto per negligenza, ma è morto perché l’eutanasia è permessa in Svizzera. Sta semplicemente qui il peccato originale di tutta questa storia.