Dalle elezioni di Taiwan uno schiaffo a Pechino
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Nonostante un terzo candidato e le pressioni cinesi, il candidato più indipendentista di Taiwan, Lai Ching-te, vince le elezioni.
Le elezioni presidenziali a Taiwan ci costringono a ribaltare il celebre motto del Gattopardo: tutto cambia perché nulla cambi. A Taipei, invece, nulla cambia perché tutti cambi. Ha infatti vinto le elezioni il vicepresidente attuale, Lai Ching-te e promette di continuare le politiche di Tsai Ing-wen. Ma questo terzo mandato di fila di un capo di Stato del Partito Democratico Progressista, cambierà irreversibilmente i rapporti con Pechino. Taiwan è un’isola di fatto indipendente e democratica, ma ufficialmente fa parte della Cina, che la considera una sua “provincia ribelle”. Il Partito Democratico Progressista è, fra i tre in competizione, il più incline all’indipendenza dalla Repubblica Popolare, anche se non ha intenzione di formalizzarla. Pechino ha fallito con le buone. Ha fallito con le minacce. Ora proverà con le cattive?
I commentatori internazionali si sono affrettati a definire l’esito elettorale di Taiwan come una vittoria di misura di Lai Ching-te. “Vince ma non stravince” è la formula più utilizzata e abusata. Lai ha battuto il candidato nazionalista (del partito Kuomintang) Hou Yu-ih 40% a 33%, dunque con un margine di 7 punti, inferiore a quello ottenuto da Tsai Ing-wen. Ma bisogna tenere conto di almeno due fattori che rendevano queste elezioni molto diverse dalle precedenti. Prima di tutto non era una corsa a due, ma a tre. C’era anche Ko wen-je, l’indipendente arrivato terzo, ma che comunque ha attratto il 26% dei voti. E li ha presi sia dalla sinistra (era un ex del Partito Democratico Progressista, in origine anch’egli un indipendentista), sia dal Kuomintang (da cui ha attinto la sua più recente politica di appeasement con la Cina). Secondo: la vittoria del candidato del Partito Democratico Progressista è la terza di fila. La regola dell’alternanza, questa volta, non ha funzionato, pur con tutte le critiche che l’opposizione del Kuomintang ha mosso contro l’amministrazione di Tsai Ing-wen.
Le elezioni appena concluse, dunque, non possono che essere lette come un referendum sulla Cina. E sono state vinte dal più anti-Pechino dei partiti, con un’affluenza molto alta, superiore al 70%. Un contrasto notevole con le urne vuote di Hong Kong, ormai completamente “normalizzata” dal regime comunista cinese. I sondaggi confermano questa tendenza indipendentista dei cinesi di Taiwan, proprio a seguito della repressione di Hong Kong. Secondo i rilevamenti di Academia Sinica, a novembre, solo il 2,3% degli abitanti delle isole taiwanesi si considera ancora “cinese”, il 60% si considera “taiwanese”. E il 78,4% ritiene che Cina e Taiwan siano due paesi distinti. Pochi ritengono che Pechino sia “credibile”, appena il 9,3% (in calo ulteriore rispetto al già basso 13,5% del 2021).
Il progetto del regime comunista cinese, la riunificazione graduale tramite una sempre maggior integrazione economica, è fallito nel 2016, quando è stata eletta per la prima volta la presidente Tsai Ing-wen. Da allora la Cina è passata dalle blandizie alle minacce, cercando di isolare diplomaticamente Taipei, facendo offerte e pressioni su quei governi che ancora la riconoscono diplomaticamente e soprattutto escludendo i rappresentanti taiwanesi da ogni forum internazionale. È tragicamente noto come Taiwan non sia riuscita a lanciare, per tempo, il primo allarme sul Covid, alla fine del 2019, proprio perché esclusa dall’Oms. Parallelamente all’isolamento diplomatico, le forze armate cinesi hanno lanciato una serie di provocazioni. Ed è stato un crescendo continuo, culminato proprio alla vigilia delle elezioni, quando palloni spia lanciati da Pechino hanno platealmente sorvolato Taiwan. Questo senso di assedio, stando ai risultati delle urne, deve aver cementato ulteriormente la determinazione dei taiwanesi di rimanere liberi da Pechino.
Difficile prevedere quali saranno le prossime mosse dei comunisti cinesi. La prima dichiarazione viene dall’Ufficio degli Affari con Taiwan e disconosce di fatto l’esito del voto, che, a suo dire «rivela come il Partito Democratico Progressista non possa rappresentare la maggioranza dell’opinione pubblica dell’isola». E inoltre, le elezioni «non cambiano la tendenza generale: la patria sarà comunque unificata».
La retorica dell’unificazione della patria, dunque dell’assorbimento di Taiwan nella Cina continentale, a tutti gli effetti, con le buone o con le cattive, è coerente con il discorso di fine anno del presidente Xi Jinping. Difficilmente la Repubblica Popolare potrà tornare indietro.