Dacca, una scandalosa tragedia che ci interroga
Il crollo del palazzo Rana Platz a Dacca del 24 aprile ci ricorda che anche noi in Italia comperiamo abiti a buon prezzo per lo sfruttamento disumano di quattro milioni di lavoratori.
Il crollo del palazzo Rana Platz il 24 aprile scorso a Dacca (più di 900 morti) ha portato alla ribalta mondiale uno degli scandali del nostro tempo, finora quasi del tutto ignorato. Anche noi in Italia comperiamo abiti a buon prezzo per lo sfruttamento disumano a cui sono sottoposti quattro milioni di lavoratori nelle fabbriche che producono vestiti esportati in Europa e Nord America (recentemente anche in Cina).
Com’è noto, un grande edificio di otto piani si è accartocciato su se stesso per il peso delle macchine da cucire e per la fragilità delle sue strutture murarie e delle sue fondamenta. Dei più di 3.000 lavoratori, circa 2.000 sono stati salvati, in parte feriti anche in modo grave, una ragazza di 19 anni è stata estratta viva dalle macerie dopo 17 giorni!
Una strage di dimensioni spaventose, che purtroppo in Bangladesh si ripete abbastanza di frequente, anche se non in questa misura mastodontica (il 5 maggio un incendio in altra fabbrica di vestiti ha causato otto morti).
L’industria per l’esportazione di abiti (che oggi è il motore dell’economia nazionale) è nata in Bangladesh all’inizio degli anni Novanta, quando la capitale Dacca, vicina all’unico porto di Chittagong, offriva le migliori condizioni per i trasporti di stoffe dall’estero e di vestiti verso l’estero. In un raggio di 50 chilometri attorno a Dacca, da una ventina d’anni le fabbriche sono nate come funghi.
L’ultima volta che sono stato in Bangladesh nel 2009, ho visitato la zona nord di Dacca: non mi è mai capitato di vedere un’occupazione così sistematica del territorio agricolo da parte della metropoli che avanza a ritmo sostenuto. Nascono ovunque piccole o grandi imprese che confezionano in palazzi da sei a otto-dieci piani: fabbriche, uffici, supermercati e falansteri di abitazione l’uno attaccato all’altro per i lavoratori. Qui si parte subito da massicci insediamenti di industrie, quasi senza terreni liberi. Si occupa ogni metro quadrato, un palazzo dista dall’altro non più di due metri, le strade quasi impossibili da percorrere, in un traffico continuo, notte e giorno.
Per noi italiani queste città senza giardini e parchi, senza campi da gioco, senza piazze, credo anche con poche scuole, sono da incubo. Qui si tratta solo di lavorare e produrre per esportare. L’unico criterio è il lavoro per il profitto.
Naturalmente, in un paese dove non esistono sindacati a difesa dei lavoratori e scarsi controlli nella costruzione di nuovi palazzi, l’imperativo di contenere i costi per esportare sempre più è norma comune. Con tutte le conseguenze che si possono prevedere.
Il Rana Plaza è sorto con la licenza di cinque piani e ne ha costruiti otto. La struttura è nata in modo illegale da un giovane imprenditore su uno stagno prosciugato in modo artificiale. Non solo, il 23 aprile, un giorno prima del crollo, alcuni ispettori avevano dichiarato il palazzo inagibile e pericolante, per le profonde crepe visibili sui muri.
Una sola società, informata dell'inagibilità, ha avvisato dipendenti e clienti di non andare al lavoro, gli altri quattro industriali hanno invece costretto il proprio personale ad andare, per lo più giovani e ragazze, minacciando di tagliare lo stipendio e anche il licenziamento.
Gli stipendi di questi immigrati da tutto il paese sono irrisori. Eppure sentivo dire, nelle missioni anche lontane da Dacca, che molti giovani vorrebbero emigrare nella grande metropoli, per trovare lavoro e una vita moderna che nelle campagne, dove sopravvive un islam tradizionalista, vedono solo per televisione.
Alla radice di tutto c’è l’egoismo dei paesi ricchi e l’ abisso della disuguaglianza nel livello di vita tra i vari popoli. Un tema complesso, che non si può semplificare troppo.
Il Bangladesh è uno dei paesi più poveri al mondo e sopravvive a fatica in un territorio esteso meno di metà della nostra Italia (147.000 kmq.) con 147 milioni di abitanti, secondo il censimento 2011, ma tutte le stime parlano di 160 milioni!
Non solo, è un paese senza risorse naturali, attraversato da quattro grandi fiumi in confronto dei quali il nostro Po è un torrente: Gange, Bramaputra-Jamuna, Tista e Meghna, che lo tagliano a fette ostacolando i trasporti (c‘è un solo ponte sul Bramaputra), i fiumi si passano con traghetti.
Il clima, influenzato dai monsoni, è caratterizzato da elevate temperature e da una mancata distinzione tra stagione secca e una umida, caratterizzata da alluvioni disastrose.
Il superiore del Pime in Bangladesh nel 2009, padre Francesco Rapacioli, mi diceva: “Il popolo bengalese è psicologicamente robusto, ottimista per natura e per necessità, intelligente e lavoratore, che si adatta a tutto, si piega ma non si spezza. Ma qui si soffoca, manca la terra, mancano gli spazi di cui ogni uomo ha bisogno per vivere e per crescere la famiglia”.
Un altro missionario che dopo il Bangladesh era andato in Guinea Bissau, padre Luigi Pussetto, mi diceva: “Se io potessi portare qui 10.000 contadini bengalesi, in 10-12 anni trasformerebbero questo paese in un giardino”.
Questo uno degli scandali del mondo globalizzato, di cui dobbiamo renderci conto, per non chiuderci nel nostro piccolo e grande paese in cui siamo nati.
Il Bangladesh ha una densità di popolazione per chilometro quadrato di 964 persone, l’Italia 197, l’Australia 3 sole persone. Noi italiani abbiamo altri problemi, ma, per molti motivi, siamo i privilegiati dell’umanità.
La responsabilità di tragedie come quella di Dacca, e di tantissime altre, non è nostra personale, ma come uomini e come cristiani dobbiamo sentirci corresponsabili delle ingiustizie del nostro mondo e, per quanto possibile, contribuire all’avvento di un mondo più fraterno e più giusto. Incominciando da noi stessi, perché quanto più noi viviamo la nostra vita secondo il Vangelo, tanto più diventiamo “luce del mondo… lampada che risplende nelle tenebre”, dalle quali è avvolta tutta l’umanità.