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L'IO E LA CRISI/5

Da Pavere a Moravia, individualismo e solitudine

Taylor, Pavese, Montale, Pirandello, Leopardi, Moravia: i diversi modi di affrontare la solitudine dell'uomo moderno, nostalgia di un Tu di cui l'uomo ha bisogno per vivere. ma non è possibile una compagnia se non si distinguono la strada e la meta.

Cultura 30_10_2016
Pirandello

La contemporaneità ha esaltato quell’autonomia e quell’individualismo dell’uomo moderno che coincide, in realtà, con una condizione di solitudine. «Il lato oscuro dell’individualismo» scrive C. Taylor ne Il disagio della modernità «è il suo incentrarsi sull’io, che a un tempo appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il significato, e le allontana dall’interesse per gli altri e la società».

Per Pavese, come leggiamo ne Il mestiere di vivere, «la massima sventura è la solitudine, tant’è vero che  il supremo conforto - la religione - consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è lo sfogo come con un amico [...]. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. […] Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un'illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarsi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri».

L’uomo si può conoscere e riavere solo nel rapporto con l’altro, proprio perché l’io è rapporto strutturale con un tu. A detta del grande poeta E. Montale (1896-1981) la stessa comunicazione e la scrittura sono il tentativo di entrare in relazione con il Tu, cioè con il senso, con il Mistero che emerge nella realtà. Leggiamo, infatti, in Intenzioni (Intervista immaginaria, 1946): «[Scrivendo il mio primo libro] Mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo».

Tanta letteratura del Novecento documenta la difficoltà o l’impossibilità a raggiungere la verità, il Mistero della realtà. Se non c’è una verità o se essa non è da noi conoscibile, non è possibile una reale comunicazione tra gli uomini, perché non si può pensare di mettere in compartecipazione una verità che sia portata da uno dei due interlocutori o che sia derivata da altri. Quando la verità è negata alle radici, ognuno continua a camminare nel proprio tunnel di vetro trasparente in cui potrà vedere gli altri, senza, però, entrare realmente in contatto con loro. Manca, infatti, anche solo il presupposto iniziale che si faccia un tentativo per trovare un percorso comune. La sfiducia nell’esistenza della verità e il conseguente relativismo sono in gran parte causa della percezione della solitudine che prova l’uomo del Novecento. 

Se la produzione letteraria dell’Ottocento è attraversata dall’ansia del vero (parola chiave, tanto per addurre qualche esempio, in Manzoni, in Leopardi, in Verga), nel Novecento tutti i lanternoni sono spenti, per dirla con Pirandello, e l’uomo rimane con il suo lanternino, girando nel buio come una lucciola. Con altra immagine potremmo affermare che la realtà è come se fosse vista da uno specchio in frantumi che riflettesse tante immagini differenti e deformate.

Così accade, ad esempio, nell’opera teatrale pirandelliana Così è se vi pare. In un paesino sono da poco giunti il signor Ponza con la moglie e la suocera di lui, la signora Frola. Questa afferma di essere la madre della moglie di Ponza e che il genero, geloso, non le permette di vedere la figlia. Per Ponza, invece, la sua prima moglie era la figlia della signora Frola, ma quando morì, lui si risposò e la mamma impazzì, credendo di vedere sempre nella nuova moglie sua figlia.  Il lettore e lo spettatore non verranno mai a sapere quale sia la verità, neppure alla fine dell’opera quando suocera e genero sono convocati davanti al prefetto perché si possa conoscere la verità. Con lo sconcerto di tutti la signora Ponza affermerà: «Per me, io sono colei che mi si crede». Il relativismo gnoseologico, ovvero l’impossibilità di conoscere quale sia la verità, lascia l’uomo solo in mezzo al buio caotico dell’esistenza. Non è possibile farsi vera compagnia se non si distinguono la strada  e la meta. 

Il romanziere Alberto Moravia (1907-1990), invece, presenta la realtà come inadeguata e insufficiente. Quando si elimina il Mistero, niente sembra valere la considerazione dell’uomo. Così si vede, ad esempio, nel romanzo La noia in cui un pittore di nome Dino si lega sentimentalmente alla giovane Cecilia. Il rapporto tra i due si traduce in un rapporto concepito esclusivamente dal punto di vista sessuale, senza alcuna condivisione affettiva, intellettuale ed esistenziale. Dino non riesce a creare alcun legame con la sua compagna. Per quanto lui si ricorda, ha sempre sofferto di noia. Questa non è, però, da intendersi come il contrario del divertimento e della distrazione.

Per Leopardi la noia è il sentimento più sublime che possa provare l’essere umano, riempie gli spazi che sono liberi dal piacere e dal dolore, è il desiderio della felicità allo stato puro, ovvero è rendersi conto che il nostro cuore desidera l’infinito e non può che essere soddisfatto che da esso. Insomma il Recanatese attribuisce al sentimento della noia un significato altamente positivo. Per Dino, invece, «la noia […] è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità  della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà […] ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno […]. Oppure la […] noia rassomiglia a un’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica: un momento tutto è chiaro ed evidente […], un momento dopo non c’è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la […] noia potrebbe  essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina».

Per Dino la realtà è assurda, perché è incapace di persuaderci della sua reale esistenza. La noia «non è che incomunicabilità», impossibilità a creare un legame con le persone e con le cose. Il pittore comprende che «la noia è impossibilità pratica a stare» con se stesso, la sola persona al mondo di cui non ci si può disfare in alcun modo. Il sesso è l’unico tentativo di Dino di comunicare, mentre sua madre comunica con lui solo con il denaro, che è il suo credo, assieme  alla «forma, la quale tra l’altro» impone «di essere praticante e, comunque, di rispettare le cose della religione». Dino è cresciuto, così, da una madre che non crede in niente.

L’educazione che ha accompagnato Dino in famiglia sembra essere paradigmatica della situazione familiare contemporanea: benessere economico, status sociale, svuotamento della tradizione religiosa, perbenismo non possono sostenere la crescita di un figlio che si trova, ben presto, in una «terra  desolata».