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LA MADONNA NELLA LETTERATURA /1

Da Iacopone a Dante, tutta la simpatia di Maria

Sia nello Stabat Mater che nella Commedia emerge il vero volto della Madre di Dio, che soffre con l'uomo nel suo desiderio di felicità senza fine.

Cultura 14_05_2011
Viso della Vergine - Antonello da Messina La tradizione della Chiesa ha da sempre riconosciuto nella Madonna la nostra avvocata e mediatrice presso il Figlio Gesù. La Madre, infatti, porta al Figlio e ce lo indica come unica via alla salvezza. Un fedele culto mariano non può che indirizzare a Colui che è «la via, la verità e la vita».

Una vastissima produzione
artistica e letteraria ha consacrato a chiare lettere, nel corso dei secoli, quella bellezza che tutta la tradizione cattolica ha fin da subito riconosciuto alla Madonna, la Madre di Dio. Una incursione nel territorio della letteratura alta ci permette di rilevare come nel corso del Medioevo la devozione mariana sia centrale e diffusa nel popolo dei credenti come in quello degli intellettuali e dei letterati. Con l’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento prima e della Modernità poi, invece, si crea una frattura tra il popolo che continua ad essere devoto alla Madre di Dio e il mondo dei letterati che in rarissimi casi le dedicano componimenti. Questa spaccatura è ancor più evidente se si pensa che tutte le tre principali opere letterarie dell’Europa del Trecento, scritte da fiorentini, la Divina Commedia, il Canzoniere, il Decameron, si concludono idealmente con una preghiera alla Vergine (nei primi due casi) o con una chiara allusione a Lei (nel capolavoro del Boccaccio).

Partiamo nel nostro percorso dallo Stabat mater dolorosa. Attribuito dalla tradizione a Iacopone da Todi (1230-1306) e musicato da artisti come Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736) e Antonin Dvorak (1841-1904), lo Stabat mater rappresenta la Vergine Maria in tutta la sua umanità, in tutto il suo dramma di madre sofferente ai piedi della croce, «afflitta e addolorata» per «le pene del suo figlio ripiegato». Madre e figlio sono i due termini su cui il testo insiste continuamente, sono le due espressioni che attestano anche il rapporto di Maria con noi. Chi di noi non soffrirebbe, si chiede Iacopone, vedendo la madre di Cristo, ma anche madre nostra, soffrire in maniera così atroce. L’uomo può solo chiedere alla Madonna che gli venga permesso di piangere con Lei, può solo gridare con tutto il cuore. Iacopone Le si rivolge allora così: «Permetti che il mio cuore si infiammi/ nell’amore per Cristo Dio,/ per piacere a lui!/ Santa Madre, fa’ in modo che/ le piaghe del crocifisso siano impresse/ profondamente nel mio cuore».

Lo scrittore chiede di poter condividere, compatire la pena per la crocefissione di Cristo, finché sarà in vita. Il centro, il motivo assiologico dell’intera lauda, sta tutto in quel «Fac ut ardeam cor meum», cioè «fa’ in modo che il mio cuore si infiammi tutto nell’ardore di Cristo Dio». L’amore o si offre in forma totale, integrale, o non è vero amore. L’amore, dono commosso di sé agli altri, ci fa desiderare di aiutare Maria a portare la sua croce, di compatire con Lei, lì ai piedi della croce. Allo stesso modo, desideriamo un giorno gioire con Lei anche nel Paradiso: «Quando il corpo morirà/fa’ in modo che all’anima/sia donata/la gloria del Paradiso». Come il Buon ladrone in presenza di Cristo, anche Iacopone alla presenza della Madonna chiede il Regno di Dio.

Qualche anno dopo
lo Stabat Mater, il più grande autore della nostra letteratura mostrerà come la compassione della Madonna per il Figlio Gesù è diventata simpatia (nel senso etimologico del termine, «soffrire con») per tutti noi: la Madonna, prevenendo la richiesta di Dante, gli ha inviato in aiuto Santa Lucia. Questa chiederà in soccorso Beatrice, che, a sua volta, si recherà da Virgilio. L’autore dell’Eneide sarà la guida di Dante nella prima parte del viaggio verso la salvezza. Nell’Inferno Dante vedrà tutto il male di cui l’uomo è capace, che lui stesso potrebbe compiere. Sperimenterà la necessità di qualcuno che vada incontro alla sua miseria e che lo guidi. Da solo, infatti, ha tentato di salire sul colle luminoso, preso dall’orgoglio e dalla presunzione, ferito nel cuore come ogni uomo per il peccato originale, che vorrebbe che ci muovessimo senza legami e senza Dio. Come tutti noi, però, anche Dante sperimenta l’inanità della vita, il non senso che avanza nelle giornate, quando si esclude il Mistero. Ma il Mistero bussa sempre e nuovamente alla nostra porta con infinita misericordia. E così, mentre Dante sprofonda verso l’abisso, il fondo della valle, risospinto dalle tre fiere, «dinanzi agli occhi» gli viene «offerto chi per lungo silenzio» pare «fioco». Virgilio induce Dante a divenire consapevole della necessità di un aiuto. Così, l’homo viator verifica che l’unica condizione che davvero lo eleva e lo rende protagonista della propria storia è quella della mendicanza. La sua discesa agli inferi è, perciò, già una salita, una constatazione di tutto il male di cui il mondo è capace, di cui ogni uomo può macchiarsi.

Nel Purgatorio Dante vedrà, poi, la bellezza della comunione e della condivisione delle anime purganti, che procedono tutte insieme per «ire a farsi belle». È un popolo in cammino quello che sale quegli irti sentieri, è una moltitudine che richiama molto da vicino la ecclesia dei che milita ancora sulla terra. L’unica differenza è la certezza della salvezza che già inonda di gioia le anime purganti, certezza che, invece, la chiesa militante deve ancora conquistare. Umiltà e contrizione (cioè vero pentimento) contraddistinguono la condizione che Dante (e quindi ognuno di noi) deve assumere per poter realmente salire. Il viaggio del Purgatorio è il viaggio a cui noi siamo chiamati fin da oggi per purificare i nostri vizi capitali.

Nel Paradiso, infine, Dante vedrà uomini pienamente compiuti, definitivamente e pienamente felici, le anime dei santi. Per salire di cielo in cielo fino alla visio dei Dante dovrà sostenere degli esami, dovrà rispondere alle domande sulla fede, sulla speranza e sulla carità. Risposte esatte significano esame superato, ma Dante non può ancora vedere Dio. Anzi, i suoi meriti sono così insufficienti e inadeguati che Beatrice stessa, già santa e in cielo, non può nulla.

Entra, quindi, in scena la figura di S. Bernardo, grande santo e mistico del Duecento, l’autore di una delle più belle preghiere mariane, quel Memorare che rappresenta il vertice della fiducia nella Madonna come corredentrice e soccorritrice dell’umanità sofferente. Tradotto dal latino, il testo suona così: «Ricordati, o piissima Vergine Maria, non essersi mai udito al mondo che alcuno abbia ricorso al tuo patrocinio, implorato il tuo aiuto, chiesto la tua protezione e sia stato abbandonato. Animato da tale confidenza, a te ricorro, o Madre, o Vergine delle vergini, a te vengo e, peccatore contrito, innanzi a te mi prostro. Non volere, o Madre del Verbo, disprezzare le mie preghiere, ma ascoltami propizia ed esaudiscimi. Amen». Il Memorare ci insegna la virtù della mendicanza e della preghiera. Così come in vita Bernardo ha declamato la bellezza della Madonna, ora, santo in Paradiso, prega l’avvocata nostra, Colei che è «bellezza, che letizia/ era ne li occhi a tutti li altri santi», perché Dante possa finalmente vedere Dio, dopo la fatica di quel lungo viaggio che dalla selva oscura di Gerusalemme lo ha portato fino all’Empireo.

San Bernardo rivolge, così, in Paradiso alla Vergine Maria una delle preghiere più belle che Le siano state mai dedicate: «Vergine madre, figlia del tuo figlio,/umile e alta più che creatura,/termine fisso d’etterno consiglio,/tu se’ colei che l’umana natura/nobilitasti sì, che ’l suo fattore/non disdegnò di farsi sua fattura./Nel ventre tuo si raccese l’amore,/per lo cui caldo ne l’etterna pace/così è germinato questo fiore./Qui se’ a noi meridiana face/di caritate, e giuso, intra ’ mortali,/se’ di speranza fontana vivace./Donna, se’ tanto grande e tanto vali,/che qual vuol grazia e a te non ricorre/sua disianza vuol volar sanz’ali./La tua benignità non pur soccorre/a chi domanda, ma molte fiate/liberamente al dimandar precorre./In te misericordia, in te pietate,/in te magnificenza, in te s’aduna/quantunque in creatura è di bontate». La Madonna è, qui, presentata in tutta la sua umanità di madre, mamma di Gesù, ma anche nostra. In quanto tale, Maria non può non soccorrere tutti i suoi figli, non solo quelli che chiedono la sua intercessione, ma anche quelli che, orgogliosi o non riconoscenti o ancora convinti che nessuno possa aiutarli, a Lei non ricorrono. Pensiamo alla storia che Dante racconta nella Divina commedia. Quando Dante decide finalmente di gridare «Miserere di me», mentre è risospinto nella selva oscura «là dove ‘l sol tace», in realtà la Madonna ha già visto le sue difficoltà e gli ha già inviato proprio quel Virgilio cui lui rivolge la sua richiesta di aiuto. Maria ha, qui, prevenuto il grido di Dante.

Oltre che madre, la Madonna è stata colei che ha contribuito alla redenzione dell’umanità attraverso l’incarnazione di Cristo. Il fiat che Maria rivolge all’Angelo è il mezzo grazie al quale Dio si è fatto carne. La Madonna ha collaborato alla redenzione del mondo, in un certo modo è corredentrice. Dio ha voluto tutta la disponibilità dell’uomo, Dio ha bisogno degli uomini come recita il titolo di un famoso film di Jean Delannoy (1950). Proprio in grazia dei suoi futuri meriti, Dio ha preservato Maria dal peccato, Lei è la sine labe concepta (la «partorita senza peccato»), l’Immacolata concezione, ricettacolo di misericordia, di pietà e di ogni tipo di carità. La Madonna è per noi continua fonte di speranza cui guardare sempre, anche nei momenti di grande difficoltà: se qualcuno volesse una grazia e non ricorresse a Lei, sarebbe come se un essere vivente fosse sprovvisto di ali e volesse volare.

San Bernardo, subito dopo, vuole spiegare alla Madonna le ragioni che hanno indotto Dante a compiere questo viaggio. Ovviamente, Lei già le conosce, ne sia prova il fatto che è intervenuta in soccorso del poeta ancor prima che lui chiedesse aiuto. Queste sono le parole che San Bernardo Le rivolge: «Or questi, che da l’infima lacuna/de l’universo infin qui ha vedute/le vite spiritali ad una ad una,/supplica a te, per grazia, di virtute/tanto, che possa con li occhi levarsi/più alto verso l’ultima salute./E io, che mai per mio veder non arsi/più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi/ti porgo, e priego che non sieno scarsi,/perché tu ogne nube li disleghi/di sua mortalità co’ prieghi tuoi,/sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi./Ancor ti priego, regina, che puoi/ciò che tu vuoli, che conservi sani,/dopo tanto veder, li affetti suoi./Vinca tua guardia i movimenti umani:/vedi Beatrice con quanti beati/per li miei prieghi ti chiudono le mani!»

Elevandosi sino alla visio Dei, Dante non deve, però, perdere le facoltà intellettive o sensitive. Dante deve, infatti, poter raccontare quello che ha visto, ovvero Dio, definito da San Bernardo come «l’ultima salute», cioè l’estrema nostra possibilità di salvezza, e «sommo piacer», cioè felicità piena per l’essere umano, unica possibilità per soddisfare il desiderio di Infinito che contraddistingue il nostro cuore .