Da Castro a Diaz Canel, tutto cambi perché nulla cambi
A Cuba non c’è più un Castro al comando, per la prima volta dalla rivoluzione del 1959. Fidel è già morto, ma anche il fratello Raul, che lo aveva sostituito da dieci anni al vertice del regime comunista caraibico ha ceduto il potere al suo vicepresidente, Miguel Diaz Canel. Ma gli esuli sono scettici su qualsiasi ipotesi di cambiamento reale.
A Cuba non c’è più un Castro al comando, per la prima volta dalla rivoluzione del 1959. Fidel è già morto, ma anche il fratello Raul, che lo aveva sostituito da dieci anni al vertice del regime comunista caraibico ha ceduto il potere al suo vicepresidente, Miguel Diaz Canel. Finisce così la famiglia dei leader rivoluzionari, ma sarà anche la fine della dittatura?
“La Rivoluzione continua il suo corso”. E’ la prima dichiarazione pubblica del nuovo presidente. In effetti c’è scetticismo fra i dissidenti ed esuli cubani sulla possibilità che cambi qualcosa. Uno scetticismo che è condiviso anche dagli osservatori non cubani. Il passaggio di consegne è stato formalizzato ieri, 19 aprile 2018, dall’Assemblea Nazionale, il “parlamento” cubano. E la notizia è passata in sordina, senza troppo clamore, un po’ nella convinzione che nulla cambierà realmente. Lo pensa, prima di tutto Armando de Armas, giornalista, scrittore, esule cubano fra i più noti, che su Radio Martì dice: “Certo, dovremmo anche considerare che chi prenderà il potere domani 19 aprile (ieri, per chi legge) sull'isola, molto probabilmente avrà solo un potere formale, considerati i cambiamenti fraudolenti messi in atto per anni. Il vero controllo del paese continuerà ad essere gestito nell'ombra e sarà nelle mani di quel generale che non ha mai vinto una battaglia. Quindi logica vorrebbe che Raul continuerà a determinare i destini di Cuba fino alla sua morte, finché il popolo non si stancherà o finché Donald Trump non deciderà che il suo regime è un pericolo per la sicurezza nazionale americana, o per la stabilità dell’emisfero occidentale”.
Ma come si spiega che una dittatura marxista duri così tanto, sopravvivendo al crollo dell’Urss e alle trasformazioni della Cina, alla morte del suo fondatore Fidel Castro e alla rivoluzione tecnologica dell'informazione? Se oggi c’è una prospettiva di continuità del regime, nonostante la fine del governo dei Castro, è perché qualcos’altro o qualcun altro sta tenendo in piedi il sistema.
Armando de Armas, all’inizio del regno di Raul, nel 2009, spiegava il segreto, a suo avviso, della lunga durata della dittatura cubana: “Se la dittatura sopravvive da più di mezzo secolo, lo deve anche a una diffusa complicità internazionale. A tutti i livelli: politico, culturale e religioso. La dittatura cubana è accettata positivamente dall’immaginario collettivo occidentale. Lo spirito socialista o socialistoide è il pensiero dominante da un secolo. Negli Usa, l’amministrazione Obama (nel 2009 era il primo anno dell’amministrazione democratica, ndr) fa leva su una retorica socialista: collettivizzazione della sanità, della scuola, della grande impresa, ecc… Per i socialisti europei, come per quelli americani, la dittatura cubana può essere contestata per i suoi metodi, non per la sua essenza. Che è esattamente la stessa: lo Stato superiore alla società, il collettivo sull’individuo”.
Nonostante tutto esistono anche serie prospettive di cambiamento. Fra queste la religione è fondamentale. Buona parte della dissidenza è parte del mondo cattolico e resiste proprio grazie a una fede fortissima. Armando Valladares, dissidente vissuto nell’inferno delle carceri cubane (esperienza che ha descritto nel suo straziante Contro ogni speranza), all’epoca dell’insediamento di Raul Castro si diceva convinto di una rinascita spirituale nell’isola, nonostante tre decenni di ateismo di Stato, seguiti da due decenni di cristianesimo mal tollerato: “Per Dio nulla è impossibile. In questi anni le chiese protestanti sono state molto attive e hanno conquistato molti nuovi fedeli. E moltissimi sono tornati a praticare la religione cattolica. Non si è persa la spiritualità cristiana. Quanto al marxismo, non direi proprio che è diventata una filosofia popolare a Cuba. Basti vedere che quando hanno permesso ai cittadini di uscire dal paese tramite l’ambasciata del Perù nel 1980, sono uscite 125.000 persone, la metà delle quali era nata a Cuba dopo la rivoluzione nel 1959. Mezzo milione di persone ha fatto richiesta all’Ufficio degli Interessi Americani per lasciare l’isola. Siccome l’accordo è per 20.000 persone all’anno, ci vorranno più di vent’anni per accontentare tutti. Cuba è un paese di 11 milioni di abitanti e più di 2 milioni vivono all’estero. Sette giocatori della squadra di calcio cubana hanno abbandonato il paese. Queste sono solo alcune delle prove che dimostrano come il popolo non accetti il marxismo”.